«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


martedì 17 gennaio 2012

Una postfazione sulle vie del giallo siciliano





[La mia Postfazione a Daniela Privitera, Il giallo siciliano da Sciascia a Camilleri (tra letteratura e multimedialità), Kronomedia, Gela 2009] 


Cosa accadde nel 1991, allorché un genio assoluto come Gesualdo Bufalino decise di compiere «un’escursione domenicale nei territori del giallo... dopo una pausa di felice ma fallita apartheid»? Accadde che venne fuori Qui pro quo, forse il più arguto giallo metalinguistco che sia mai stato scritto. Quello che dice nell’ultimo capitolo la voce narrante della segretaria-investigatrice vicaria sul suo romanzo giallo, anch’esso intitolato Qui pro quo, vale naturalmente anche per il romanzo di Bufalino, che dunque contiene in sé una sorta di storia apocrifa parallela della propria stessa composizione: «e giù i critici amici a lodarmi dell’eroismo di credere ancora in una lingua vetusta; e a discorrere di mise en abîme e come io giocassi, sull’esempio di quel quadro delle Meninas, fra arte, artifizio e realtà... Taluno citò persino, chissà perché, Karl Popper; un altro tirò in ballo i “frattali”, e io dovetti correre a ridere in pace da sola dentro la toilette...».
E davvero questo gioiello gioiosamente giocato sul piano del trucco e della burla è un fuoco d’artificio in cui la mise en abîme, il famoso quadro di Velázquez, Borges, Congetture e confutazioni e la ricorsività dei frattali concorrono tutti insieme a comporre un geniale labirinto di leggerezza molteplice, inconcludente e ironica.
Per avere solo un’idea dei vertiginosi giochi di rimandi di cui è intessuto il breve testo, si pensi solo che il protagonista, sicuramente vittima, forse assassino di se stesso e addirittura investigatore burlesco, si chiama Medardo Aquila. “Medardo”, come il visconte dimezzato di Calvino, perché, probabilmente, a un certo punto dichiara: «Io, per non essere solo, sono costretto a sdoppiarmi e a sopportare fra le mie due metà un’eterna guerra civile» (p. 26). “Aquila” perché morirà a causa di un busto in pietra di Eschilo cadutogli in testa, sicché, come si dice anche nel testo, possa compiersi la vendetta del sommo tragediografo, morto secondo la leggenda a causa di una tartaruga mollata da un’aquila in volo e piombatagli sul capo mentre passeggiava sulla riva del mare di Gela.
Giustamente, allora, Daniela Privitera dedica il dovuto spazio a questo testo di Bufalino nella sua agile e puntuale ricognizione delle forme del giallo siciliano da Sciascia a Camilleri, passando per Franco Enna, Silvana La Spina e Santo Piazzese. Guardiamo alcune date. Qui pro quo, che resterà un unicum nella produzione bufaliniana, esce nel 1991, quando Sciascia è morto da due anni e Camilleri, che ha già inventato la sua Vigàta da undici anni, è in procinto di inventare il commissario Montalbano (La forma dell’acqua sarebbe uscito nel 1994). Esso, dunque, costituisce uno spartiacque per così dire dialettico nella peculiare storia del giallo siciliano, se non altro nelle sue strade maestre, costituite dalle opere di Sciascia e Camilleri. Al modello sciasciano dell’impegno civile nell’Italia democristiana  e dell’ostinata fedeltà etica nei confronti della ragione illuministica, Bufalino contrappone un divertissement centrato tutto sull’arguzia, sul disimpegno, sull’intertestualità e sull’ironia del gioco delle maschere che si fa beffe di ogni facile riduzione a un ordine razionale del caos tragico, ma poco serio, del mondo. In tal senso, come nota giustamente Daniela Privitera, egli recupera la lezione scettica del Dürrenmatt de La promessa e del Gadda del Pasticciaccio, che del romanzo giallo hanno voluto intonare esplicitamente il requiem per la sua intrinseca insensatezza, visto che presume di imporre un ordine di senso esplicativo a una realtà insensata e caotica.
Quale strada intraprendere, allora? Occorreva davvero arrendersi e tornare a dare ragione a Calvino, laddove questi si mostrava perplesso sulla possibilità stessa di una via siciliana al giallo? La svolta di Camilleri, che opera una sorta di sintesi dialettica sugli opposti modelli di Sciascia e Bufalino, è resa possibile, tra l’altro, dalle stesse tortuosità tragicomiche e imprevedibili della storia, che esigono sia una nuova modalità di impegno civile (nel segno di Sciascia) sia uno sguardo disincantato e divertito (nel segno di Bufalino). Per una felice coincidenza, il 1994 è l’anno tanto dell’entrata in scena del commissario Montalbano quanto della famigerata “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Da quel momento l’Italia entra in un’epoca dalla quale non è ancora uscita, e rileggere oggi le prime righe del risvolto di copertina de La forma dell’acqua dà la misura del fatto che la stagione camilleriana costituisce una sorta di controcanto critico e beffardo rispetto all’età berlusconiana: «Il primo omicidio letterario in terra di mafia della seconda repubblica – un omicidio eccellente seguito da un altro, secondo il decorso cui hanno abituato le cronache della criminalità organizzata – ha la forma dell’acqua (...). Prende la forma del recipiente che lo contiene».
E davvero l’opera di Camilleri – che negli ultimi quindici anni, in termini di successo, ha assunto nella letteratura italiana di matrice siciliana il peso di un “carico da undici”, come ha sostenuto giustamente Gianni Bonina – ha preso la forma del recipiente storico-sociale che la contiene. È liquida, cioè a metà strada tra la pesantezza solida di quella sdegnata di Sciascia, con il suo impegno civile di coscienza critica “comunista” nell’Italietta della destra clericale e populista al potere, e la leggerezza aeriforme di quella beffarda di Bufalino, con le sue concessioni divertite al gioco dell’intertestualità. 

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