«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


domenica 12 febbraio 2012

La fallace teologia filosofica di Vito Mancuso




(gennaio 2008)

Ed eccola la tanto attesa risposta teologico-filosofica italiana all’ondata di libri contro la credenza religiosa scritti negli ultimi tempi da certi cattivoni atei e materialisti, da Dennett e Dawkins a Odifreddi e Ferraris. Il libro è uscito da poche settimane nella prestigiosa collana “Scienza e idee” della Raffaello Cortina diretta dal noto filosofo della scienza Giulio Giorello (un altro cattivone laico che si è proclamato miltonianamente “di nessuna chiesa”), reca in copertina una fascetta rossa che lo proclama pomposamente, con le parole non a caso di Panorama, “Un autentico caso editoriale e culturale”, ed è preceduto da una lettera paternamente affettuosa di Carlo Maria Martini, maestro spirituale dell’autore. Stiamo parlando de L’anima e il suo destino di Vito Mancuso, genitori siciliani, classe 1962 e professore di Teologia moderna e contemporanea all’Università San Raffaele di Milano.
Arrivando alla prima delle 317 pagine del volume, scandito in dieci capitoli e una Conclusione che comprendono in tutto 129 brevi paragrafi, ci si imbatte in un incipit che fa tremare le vene e i polsi per l’ambizione del progetto: «Il principale obiettivo di questo libro consiste nell’argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dall’alto, sorga un futuro di vita personale oltre la morte. L’argomentazione verrà condotta di fronte alla coscienza contemporanea, in particolare a quella sua parte scettica, se non addirittura atea, la quale ritiene che non vi sia nulla di superiore all’immane potere della morte». Argomentazione? Coscienza scettica se non addirittura atea, cioè laica (come si legge subito dopo)? Una teologia che, come si legge alla fine del primo paragrafo, vuole dialogare con la filosofia e la scienza per costruire un discorso rigoroso e non confessionale su Dio? Uhm, la mia coscienza atea che nuota tra filosofia e scienza non resiste al richiamo e si dispone all’ascolto.
Intanto, vado all’indice dei nomi e scorgo alcune assenze che mi insospettiscono: Hume, Russell, Popper, Dennett, Dawkins, Odifreddi, Flores D’Arcais e Giorello. Come? Filosofi, logici, epistemologi e scienziati laici particolarmente sensibili ai problemi filosofici e metafisici sollevati dalla cosmologia e della biologia, alcuni dei quali (Hume, Russell, Dennett e Dawkins) hanno avanzato argomenti irresistibili contro l’idea stessa di un principio divino – una Mente, il Logos – alla base della “natura-physis” o “essere-energia” (per riprendere le espressioni care a Mancuso), sono totalmente ignorati in un libro teologico che si propone di dialogare con la scienza e la filosofia? E chi saranno mai, a parte filosofi ad hoc come Teilhard de Chardin (di cui considera “santo” anche il nome: cfr. p. XV), gli scienziati contemporanei con cui “dialoga” Mancuso? Ecco quelli chiave: Fritjof Capra (l’autore del celebre Il Tao della fisica), Paul Davies, Ilya Prigogine, Christian de Duve e persino Einstein, dei quali, con notevole furbizia e non poca faccia tosta, Mancuso cita alcune affermazioni metafisiche che non escludono la possibilità che nelle leggi della fisica sia inscritta una tensione essenziale verso la nascita e lo sviluppo della vita. Da queste affermazioni, prese per asserzioni scientifiche solo perché pronunciate da scienziati, il nostro teologo “deduce” il necessario finalismo di stampo aristotelico che fa del cosmo un luogo orientato amorevolmente alla comparsa dell’uomo, della sua anima e quindi della sua stessa immortalità personale, che sarebbe la “quinta discontinuità” cosmica (§ 45), dopo le prime quattro rappresentate dall’origine della materia dal Big Bang, dalla nascita della materia organica, dalla comparsa dell’intelligenza e dall’emergenza da quest’ultima della moralità e della spiritualità (cfr. § 43).
Quando poi Mancuso dedica un paragrafo (il decimo) al “primato del Logos”, basandosi sul discorso di Ratzinger a Ratisbona, e cita con grande approvazione e senza ulteriore commento il celebre argomento del Boeing 747 di Fred Hoyle (la nascita casuale della vita è paragonabile per improbabilità a una tromba d’aria che, spazzando un ammasso di rottami, assembli accidentalmente un Boeing 747), per concludere che la teoria casualista dell’origine della vita è ‘scientifica’ quanto l’affermazione che la casa di Maria è stata trasportata dagli angeli da Nazaret a Loreto (cfr. § 44), si capisce immediatamente che egli non ha mai letto o compreso una parola di Dennett e Dawkins. Il primo, infatti, contro la versione lockiana della tesi del “primato della Mente” (Saggio sull’intelletto umano, IV, X, 10), filosoficamente molto più rigorosa di quella di Ratzinger, ha avanzato un’argomentazione gigantesca e devastante che costituisce tutto il monumentale volume del 1995 intitolato L’idea pericolosa di Darwin e che sviluppa, alla luce della potenza esplicativa dell’algoritmo della selezione naturale, alcune mirabili e occasionali intuizioni cosmogoniche messe da Hume in bocca a Filone nei Dialoghi sulla religione naturale. Mentre il secondo, ne L’orologiaio cieco (1986) e ancor più dettagliatamente nel recente L’illusione di Dio (2006), ha dimostrato con una forza argomentativa implacabile che l’argomento del Boeing 747 di Hoyle, lungi dall’intaccare il lavoro lento di “ricerca e sviluppo” compiuto dalla selezione naturale darwiniana (che non è affatto dominata dal caso, contrariamente a quanto sostengono i nemici del darwinismo come Mancuso), si applica più adeguatamente all’ipotesi del Dio Progettista originario, il quale, incorporando una complessità logica ben maggiore della complessità biologica che è chiamato a spiegare, si deve necessariamente veder assegnata una probabilità così bassa da risultare indistinguibile dallo zero.
Va dato atto a Mancuso che in più punti egli si discosta coraggiosamente dalla dottrina ufficiale della Chiesa, non mancando di criticare alcuni dei pilastri del cristianesimo tradizionale (come ad esempio la nozione di peccato, a proposito del quale sostiene che ce n’è propriamente solo uno che meriti l’Inferno: «la bestemmia contro lo Spirito», p. 232), e non si può non ammirarlo quando, a proposito di Giordano Bruno, scrive: «Bruciandolo sul rogo, la mia Chiesa ha tolto all’Occidente la possibilità di fondare il senso della giustizia e del bene sull’ordine naturale. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti» (p. 20). In tutto ciò egli è guidato però dall’idea un po’ esaltata che, laddove le sue opinioni sembrassero eterodosse, esse sono a suo parere «pienamente ortodosse rispetto alla verità immutabile di Dio quale bene, sorgente e meta della vita del mondo» (p. XV).
Ma non è di Principio Ordinatore immanente, Principio personale trascendente, anima, immortalità, peccato, paradiso, purgatorio, inferno e limbo, temi ampiamente trattati da Mancuso, che qui voglio parlare. La mia coscienza atea mi impedisce di prenderli sul serio per più di cinque minuti anche con tutta la buona volontà di questo mondo. A me interessa il nocciolo della sua argomentazione filosofica, esibito chiaramente e, ahimè, disastrosamente, nel § 44, intitolato “L’origine della vita”. La domanda delle cento pistole è: Perché mai a un certo punto della storia dell’universo è uscita la pallina rossa della vita? Dovendo scegliere fra tre spiegazioni possibili (le uniche che egli riesca a vedere, e già qui si colgono dei limiti enormi nella sua millantata conoscenza delle teorie scientifico-filosofiche in campo), cioè fra il “caso”, il “miracolo” e la “necessità intrinseca”, egli dichiara di abbracciare la terza: «se è uscita l’unica pallina rossa della vita, è perché doveva uscire proprio lei. Dagli informi gas primordiali doveva scaturire la vita. Io sostengo che vi è una finalità intrinseca nella natura, esattamente quella medesima teleologia di cui parlava Aristotele, che so bene essere un supremo tabù per molti biologi contemporanei» (pp. 116-117). Questo passo così candidamente pretenzioso mi ha fatto venire subito in mente un paio di pagine de L’idea pericolosa di Darwin (§ 7.3, tr. it. Bollati Boringhieri 2002, pp. 208-209) in cui Dennett smaschera implacabilmente l’imbarazzante errore puramente logico contenuto in questo tipo di inferenza, classicamente adottata dai sostenitori della versione “forte” del cosiddetto “principio antropico”. L’argomento del tipo di quello adottato da Mancuso non è un tabù, come egli sostiene allegramente, ma una banale fallacia logica che può essere illustrata in maniera semplicissima. Come nota Dennett, nella sua forma “debole” e innocua il principio antropico si basa su una normale applicazione della regola del modus ponens: «se x è una condizione necessaria per l’esistenza di y e y esiste, allora x esiste». In simboli, si tratta del teorema: (((y → x) & y) → x), in cui il “Dev’essere vero che” sta rigorosamente all’inizio della formula. Essa, infatti, non dice che x o y o entrambi sono necessari, ma che è necessario che se y → x e si dà anche y, allora si “deve” dare anche x, dove x e y, nel caso delle scienze empiriche, sono eventi (o descrizioni di eventi) contingenti. La necessità, qui, consiste solo nel fatto che x deve darsi affinché si dia y; il che non significa affatto, come invece pensano erroneamente quelli che argomentano alla maniera di Mancuso, che x e y siano necessari in assoluto. Scrive Dennett: «Riconosco che mi è difficile credere che un tale equivoco e una tale controversia siano stati generati in realtà da un banale errore logico, ma si hanno prove concrete che spesso questo corrisponde al vero, e non soltanto nell’ambito delle discussioni sul principio antropico. Si considerino gli analoghi equivoci che circondano la deduzione darwiniana in generale. Darwin deduce che gli esseri umani devono essersi evoluti da un antenato comune agli scimpanzé e che tutta la vita deve essere emersa da un unico principio, e alcuni, in modo inspiegabile, interpretano queste deduzioni come la tesi che gli esseri umani siano in qualche modo un prodotto necessario dell’evoluzione, o che la vita sia una caratteristica necessaria del nostro pianeta. (...) Quanti credono nel principio antropico (...) pensano di poter dedurre qualche cosa di meraviglioso e stupefacente dal fatto che noi osservatori coscienti siamo qui – per esempio, che in qualche senso l’universo esiste per noi, o forse che noi esistiamo affinché possa esistere l’universo nella sua totalità, o addirittura che Dio ha creato l’universo come l’ha creato affinché noi fossimo possibili».
L’argomento di Dennett, in sostanza, è questo. Che cosa significa, ad esempio, dire che il DNA è una condizione necessaria per l’esistenza degli organismi multicellulari come noi? Significa semplicemente che il DNA deve esserci affinché tali organismi siano possibili, i quali costituiscono così una condizione sufficiente per l’esistenza del DNA. In termini logici questo si traduce così: l’esistenza degli organismi multicellulari come noi implica l’esistenza del DNA (e non viceversa!), e siccome noi esistiamo, allora anche il DNA deve esistere. Ma questo non equivale a dire (come sostengono i finalisti alla Mancuso) né che l’esistenza del DNA sia necessaria in sé, cioè da sempre prevista dalla Natura, né che gli organismi multicellulari come noi siano un prodotto necessario, e addirittura da sempre ‘voluto’ dal Progettista divino, del DNA. Infatti, la molecola del DNA poteva tranquillamente non formarsi e inoltre non c’è contraddizione nel pensare a un mondo dove ci sia il DNA e non ci siamo noi (del resto è stato così per alcuni miliardi di anni). Viceversa, non abbiamo alcuna possibilità di concepire un mondo in cui ci siamo noi ma non c’è il DNA. L’inferenza alla Mancuso, quindi, è un puro e semplice errore logico che nasce da un fraintendimento del condizionale e del modus ponens.
È vero, aggiungo, che il teorema precedente implica la versione modale della regola del modus ponens: ((y → x) & y) → x, che apparentemente sostiene un’inferenza come quella di Mancuso. Ma qui x e y diventano enunciati dimostrabili, ovvero descrizioni di ‘fatti’ logico-matematici necessari che nulla hanno a che vedere con i fatti tutti contingenti del mondo in cui viviamo, come la combinazione antropica delle costanti fisiche fondamentali, la formazione degli elementi chimici pesanti e delle molecole inorganiche, la sintesi delle proteine, la comparsa degli organismi multicellulari e la nascita dell’Homo sapiens. Chi ha voglia di sostenere il contrario, cioè che nel mondo possono darsi fatti logicamente e ontologicamente necessari, si autoinfligge un onere della prova filosoficamente insostenibile e scientificamente disperato. Questa cosa ovvia Mancuso avrebbe potuto acquisirla adeguatamente se solo avesse meditato almeno sulla proposizione 5.634 del Tractatus di Wittgenstein, anziché fermarsi a un innocuo aforisma sulla morte di sapore epicureo – «Il timore della morte è il miglior segno di una vita falsa, cioè cattiva» – contenuto nei Quaderni 1914-1916 (cfr. p. 196).
Qua e là, poi, si incontrano delle perle di dettaglio davvero esilaranti. Nel § 7, ad esempio, intitolato “Evoluzione ed evoluzionismo”, in cui Mancuso pretende di separare il “fatto” dell’evoluzione dalla sua “interpretazione” evoluzionista-darwiniana, sulla scorta di uno spericolato riferimento alla nozione di “slancio vitale” di Bergson (un altro fossile pseudofilosofico riesumato da Mancuso, insieme a quello di Teilhard de Chardin), si sostiene niente meno non solo che l’espansione dell’universo è “probabilmente la legge fondamentale della natura” (sic!), ma anche che la “generazione ininterrotta della natura, il motore dell’evoluzione” ne è la riproduzione in piccolo sul nostro pianeta, dato che, se l’espansione è una legge universale, essa deve valere anche localmente sulla terra (cfr. p. 15)! Per Mancuso, quindi, espansione dell’universo da un lato ed evoluzione e differenziazione biologica dall’altro sono praticamente la stessa cosa, o espressioni della stessa cosa (un ordine cosmico razionale, l’Ordine). Gli scienziati, va invece ricordato, quando paragonano la vita alle vere leggi fondamentali, come il secondo principio della termodinamica, sottolineano che una struttura vivente costituisce un’eccezione locale e transitoria all’aumento inesorabile dell’entropia nel cosmo.
Di fronte a un libro come quello di Mancuso, allora, è difficile non ripensare alla celebre conclusione della Ricerca sull’intelletto umano di Hume: «Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità e sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni» (ed. Laterza 1996, p. 261).

4 commenti:

  1. Grande Marco Trainito! Non si poteva smontare meglio questo goffo e (forse?) subdolo tentativo di razionalizzare l'idea di Intelligent design. Penso che quelli come Mancuso siano il nostro vero problema. Riescono ad accreditarsi presso le menti deboli grazie alla loro "leggera" eresia e deformano la realtà secondo i loro paradigmi anziché modificare i paradigmi secondo la realtà, come fanno solo gli intellettuali onesti.

    RispondiElimina
  2. Caro Davide, quella coda infinita di commenti su Sitosophia è una cosa che non cessa di stupirmi: un sacco di persone in gamba a discutere sui temi caldi sollevati (e malamente discussi) da Mancuso.

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.