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Paul K. Feyerabend nella sua foto preferita |
C’è un passo della tesi di laurea di
Marx (Differenza tra le filosofie della natura
di Democrito ed Epicuro, 1841) che offre l’occasione per ripercorrere certi
dispositivi di discorso tipici di quella filosofia che sin dalle sue origini
intende sostituire una propria teologia a quella più tradizionale e popolare:
«La filosofia, finché una goccia di sangue pulserà nel suo cuore assolutamente
libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a
Epicuro: “empio non è chi rinnega gli dèi del volgo, ma chi le opinioni del
volgo applica agli dèi”. La filosofia non fa mistero di ciò. La dichiarazione
di Prometeo – “detto francamente, io odio tutti gli dèi” – è la sua propria
dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dèi celesti e terreni
che non riconoscono come divinità suprema l’autocoscienza umana»1.
L’interesse
di questo passo consiste soprattutto nel fatto che esso testimonia un momento
dello sviluppo del pensiero marxiano, ancora fortemente influenzato da Hegel,
che subito dopo verrà abbandonato. Già nel 1843, infatti, nell’Introduzione
a Per la critica della filosofia del
diritto di Hegel, Marx guadagna quella prospettiva materialista-storica che
lo pone al di fuori del gruppo dei giovani hegeliani critici della religione,
perché egli vedrà in quest’ultima l’“oppio dei popoli”, cioè quell’epifenomeno destinato a scomparire dalla
storia insieme alle stesse condizioni materiali contraddittorie, ingiuste e
infelici che rendono necessaria per il popolo oppresso la droga religiosa, in
quella peculiare preistoria degli Stati e delle società (tuttora perdurante)
che si fondano sulla divisione in classi e sulla loro lotta, in cui a perdere
sono sempre i più deboli. Questa peculiare concezione della religione, che è
una delle cifre del carattere rivoluzionario e unico del pensiero di Marx, non
è però presente nel passo citato, che invece, grazie all’impronta hegeliana
ancora molto marcata, reca in sé la traccia evidente di un vizio antico di
certa filosofia, che è quello di fondare nuove teologie non meno mistificanti e
opprimenti di quelle che intende demistificare e da cui intende liberare.
Si noti innanzi tutto l’uso retorico e
significativamente distorto che fa Marx del verso 975 del Prometeo incatenato di Eschilo: mentre il titano Prometeo
(genealogicamente non inferiore a un dio come Zeus) dichiara di odiare non già gli
dèi tout court, ma gli dèi cui ha fatto
del bene e da cui ha ricevuto del male (cfr. v. 976), cioè gli dèi ingrati,
Marx sostiene che la filosofia fa propria la professione di odio di Prometeo
rivolgendola a tutte le divinità che non si sottomettono all’autocoscienza
umana, una divinità superiore a loro. Ma perché superiore? Per almeno due
ragioni: 1) perché, nell’ottica hegeliana, l’autocoscienza umana che si mostra
nella filosofia, nella prospettiva dello Spirito assoluto, costituisce un
superamento dialettico rispetto a quella esibita dalla rappresentazione
religiosa; e inoltre 2) perché, feuerbachianamente (L’essenza del cristianesimo è dello stesso anno della tesi di
laurea di Marx), è l’autocoscienza umana a creare gli dèi, non viceversa. Come
si vede, dunque, qui è in azione una mossa classica della filosofia, e cioè la
sostituzione delle divinità create dalla pietà popolare e dall’immaginazione
artistica e mitopoietica con una divinità creata dai filosofi, in questo caso
l’hegeliana autocoscienza umana.
La
stessa mossa, peraltro, era presente già nel passo della Lettera a Meneceo (123-124) citato da Marx, laddove Epicuro stava
sostituendo la mitologia tradizionale (volgare) con la propria (filosofica), la
quale prevede degli dèi assolutamente indifferenti alle esigenze e agli appelli
umani, che è quanto di più letteralmente impopolare si possa immaginare, visto
che è tipico della religiosità popolare affollare il cielo di oggetti
intenzionali con cui entrare nel rapporto tipicamente umano del dare-e-avere attraverso
la preghiera, l’invocazione, il voto, l’offerta, ecc. Non è un caso che Daniel
Dennett abbia proposto di definire operativamente le religioni tradizionali come
«sistemi sociali i cui partecipanti affermano di credere in uno o più agenti
soprannaturali di cui bisogna cercare l’approvazione» in un paragrafo del primo
capitolo di Rompere l’incantesimo2
significativamente introdotto da
un’epigrafe tratta da un passo del sesto paragrafo de L’avvenire di un’illusione (1927), in cui Freud critica aspramente
il Dio dei filosofi: «I filosofi estendono il significato delle parole fin dove
queste non serbano più quasi nulla del loro senso originario; chiamano “Dio”
un’astrazione vaga che si sono foggiata e sono allora di fronte a tutto il
mondo anche deisti, credenti; possono anche vantarsi di aver foggiato un
concetto di Dio più alto, più puro, pur non essendo più il loro Dio che
un’ombra inconsistente, non la possente personalità della dottrina religiosa»3.
Certo,
anche Freud non manca, più avanti, nel decimo e ultimo paragrafo del suo
stupendo saggio, di cadere in tentazione e di parlare del dio degli scienziati,
«il nostro dio LógoV», ma è significativo osservare come egli si premuri di
mostrarlo molto più debole del dio
della tradizione: «il nostro dio LógoV non
è forse molto onnipotente, può adempiere solo una piccola parte di ciò che i
suoi predecessori hanno promesso»4, per dire che la scienza potrà
soddisfare solo gradualmente e per le generazioni future certe aspettative lecite
degli uomini, come la pace e la diminuzione della sofferenza, solitamente richieste
egoisticamente per sé e subito con invocazioni e preghiere al dio ebraico-cristiano5.
La
critica di Freud qui mi sembra anticipare alcune idee consistenti su cui hanno
successivamente insistito Wittgenstein, che ha subìto non poche suggestioni
freudiane (per sua stessa ammissione), e Feyerabend, nelle cui opere c’è molto
di wittgensteiniano (per sua stessa ammissione). Quando Wittgenstein, nel Libro blu6, decostruisce il
peculiare “desiderio di generalità” dei filosofi che, nel tentativo di
scimmiottare un malinteso metodo scientifico e di fondare una mai precisata
scienza filosofica, “ha paralizzato la ricerca filosofica”, ha in mente anche
le tipiche e indebite estensioni di significato di certi termini del linguaggio
comune (dio, fiume…) operate dai filosofi sin dall’antichità; le stesse, per
esempio, che hanno portato alla ben nota immagine eraclitea, cui Wittgenstein
nel Big Typescript ha dedicato una rapida osservazione
parentetica, fulminante nella sua ovvietà, poi non inclusa nel § 116 della
prima parte delle Ricerche filosofiche,
che in parte deriva proprio da questo luogo: «Noi riconduciamo le parole dal
loro impiego metafisico al loro impiego corretto [variante: ‘normale’] nel
linguaggio. (L’uomo che disse che non è possibile scendere due volte nello
stesso fiume, disse qualcosa di falso; si può
scendere due volte nello stesso fiume.)»7.
La
tentazione dell’astrazione è stata al centro delle ultime riflessioni di
Feyerabend, al punto che a una sua critica in nome della riconquista
dell’abbondanza variegata e irriducibile della realtà ha dedicato il suo ultimo
libro, rimasto incompiuto e pubblicato postumo: Conquest of Abundance (1999). Nel capitolo dedicato a Senofane (I,
2), e in particolare nel § 4, intitolato proprio “Gli Dei”, Feyerabend
smaschera la stessa procedura che in questa nota abbiamo attribuito a Epicuro,
al giovane Marx ispirato da Hegel (in cui essa arriva al parossismo panlogico) e,
attraverso Wittgenstein, a Eraclito. Dopo aver citato i ben noti frammenti 11,
12 e 14-16 di Senofane, in cui è contenuta la sua critica alla concezione
antropomorfica degli dèi, Feyerabend osserva: «non c’è dubbio che i commenti di
Senofane suonino eccelsi se letti da un intellettuale progressista dei giorni
nostri. Ma non era questo il loro scopo. Senofane si rivolgeva ai suoi
contemporanei, non a Sir Karl [Popper, il quale, com’è noto, ha celebrato
Senofane come suo precursore in merito al congetturalismo]. Come reagirono
costoro e cosa avrebbero potuto replicare i difensori della tradizione? (…)
Così, un fervente difensore del pluralismo religioso poteva facilmente
replicare che, trattandosi di entità tribali, gli Dei, come i re, assomigliavano
in realtà ai loro sudditi. “Hai ragione, Senofane”, avrebbe potuto
rispondergli, “i nostri Dei ci assomigliano e spesso agiscono come noi.
Dopotutto, sono i nostri Dei. Ma perché mai pensi che questa sia una critica?”»8.
Le divinità tradizionali costituivano una folla davvero abbondante e non di
rado contraddittoria, per via del fatto che i culti erano locali e spesso
c’erano scambi, assimilazioni e giustapposizioni dovuti ai viaggi e alle conquiste. Ma cosa
proponeva Senofane al posto di questa abbondanza umana, troppo umana? Un dio
assolutamente e mostruosamente inumano, uguale per tutti, senza alcun sapore
localistico e senza alcun rapporto privilegiato con un gruppo etnico, che i
frammenti 23-26 presentano precisamente come unico, più grande di tutti gli
altri dèi (come l’autocoscienza umana del giovane Marx), diverso dagli uomini
per aspetto e pensiero, immobile come un tiranno al centro del suo impero,
onnisciente e capace di imprimere movimento con la sola forza della mente. È noto
che già in Contro il metodo9 Feyerabend usava come esempio paradigmatico di
rottura discontinua tra concezioni generali del mondo il passaggio dalla forma
di vita della Grecia arcaica, includente una ben precisa cosmologia mitica ‘umana’
e rintracciabile nei poemi omerici, a quella, più razionalistica, astratta e
‘inumana’, propagandata da filosofi come Senofane, Parmenide, Eraclito e
Democrito, e affermatasi nella polis tra il VII e il V secolo a. C., cioè nel
periodo in cui, com’egli dirà nel Dialogo
sul metodo, «i
filosofi cercavano di sostituirsi ai poeti come guide intellettuali e politiche»10. Nella sua
ultima opera, invece, concentrandosi in particolare sulla teologia di Senofane,
egli approfondisce ulteriormente l’analisi del meccanismo retorico di
astrazione violenta operata dal desiderio di generalità dei filosofi e mette in
luce come essa preferisca la costruzione di un mostruoso “mondo vero” (nel
senso di Nietzsche, Crepuscolo degli
idoli, IV) basato su un “super-ordine tra super-concetti” (nel senso di
Wittgenstein, Ricerche filosofiche,
I, § 97) a discapito della ricchezza delle produzioni culturali umane in campo
religioso: «Ciò che abbiamo non è un essere che trascende l’umanità (dovrebbe
essere forse ammirato per questo?), ma un mostro,
molto più terribile di quanto potessero mai aspirare ad essere i lievemente
immorali Dei omerici. Questi si potevano ancora capire: si poteva parlare loro,
cercare di influenzarli, qua e là li si poteva persino ingannare, le loro
azioni indesiderate potevano essere prevenute per mezzo della preghiera, delle
offerte, delle argomentazioni. Tra gli Dei omerici e il mondo che governavano
(e spesso perturbavano) c’erano relazioni personali. Il Dio di Senofane, che ha ancora tratti umani ma ampliati
in maniera grottesca, non permette tali relazioni. Eppure, provoca ancora degli
effetti. Nella sua forma più filosofica, e quindi più moralizzata, la fede
olimpica tendeva a farsi religione della paura, una tendenza questa che è
riflessa nel vocabolario religioso: nell’Iliade
non c’è termine alcuno per “timorato di Dio”»11 . Ed è terrificante,
prosegue Feyerabend, osservare quanto entusiasmo abbia suscitato in molti filosofi
influenti questa fabbrica logica di mostri messa in funzione dal desiderio di
astrazione, fino a rendere del tutto familiare l’idea che il fondamento della
realtà sia uno di essi (l’Idea, il Nous, il Logos, l’Uno, lo Spirito,
l’Assoluto, la Volontà, l’Essere, il
Disegno intelligente), quando in origine si trattava solo del fatto che ad
alcuni intellettuali mancava un impegno emotivo nei confronti degli usi
popolari: «Le persone comuni, soprattutto nelle zone rurali, conservavano un
impegno del genere. Esso mancava agli intellettuali, gente di città, che
guardavano dall’alto in basso gli usi convenzionali e le cui connessioni con
gli strati più umili dell’umanità non erano mai state molto strette. Mancava
loro la capacità di conservare l’abbondanza che era stata affidata a loro e ai
loro contemporanei»12.
Nelle
mie intenzioni, è meglio precisare, queste considerazioni non si traducono
nella difesa delle superstizioni più oscurantiste contro l’offensiva illuminista
e razionalista (tentazione cui spesso non hanno resistito l’ultimo Wittgenstein
e Feyerabend). Per dirla con le parole di Freud (che oggi trovano un’eco nelle
ricerche sulle origini biologiche ed evolutive della propensione cognitiva a
sviluppare credenze religiose), nessuno mi convincerà che le «rappresentazioni
religiose» non abbiano una «genesi psichica», perché esse, «che si presentano
come dogmi, non sono precipitati dell’esperienza o risultati finali del
pensiero, sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più
pressanti dell’umanità»13; ed è mia convinzione, per dirla con
Cioran, che «finché vi sarà ancora un solo dio in piedi, il compito dell’uomo non sarà finito»14,
soprattutto se gli dèi sono il manto ipnotico che i re nudi di religioni
istituzionalizzate usano per camuffare e conservare il loro dominio spirituale,
politico ed economico su masse di fedeli ingenui. Piuttosto, quello che qui si
è voluto suggerire è che la filosofia non ha recato un grande contributo alla
ricerca della verità e alla diffusione all’onestà intellettuale quando ha
preteso di sostituire idoli popolari e familiari con mostri concettuali
impressionanti e vacui. Ecco perché, per tornare a Marx, anche se poi il suo
pensiero è approdato ad altre, ma più oneste ed umane, utopie, considero una
benedizione il suo precoce abbandono dell’idea che il mostro hegeliano dell’autocoscienza
umana sia una divinità superiore a tutti gli dèi.
NOTE
1 Karl Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito ed Epicuro,
ed. it. a cura di Diego Fusaro, Bompiani, Milano 2004, p. 97 e p. 99.
2 Daniel C. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale (2006),
tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 9 (per l’epigrafe tratta da Freud,
cfr. p. 7).
3 In Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino
1971, (rist. 2009), p. 173.
4 Ivi,
p. 195.
5 Cfr. ivi, p. 194.
6 Cfr. Ludwig Wittgenstein, Libro blu e libro marrone, Einaudi,
Torino 1983, pp. 26-30.
7 Id., The Big
Typescript, XII, § 88.4, Einaudi, Torino 2002, p. 411.
8 Paul K. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza, Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 64-65.
9 Cfr. Id., Contro il metodo (1975), tr. it.
Feltrinelli, Milano 1995, in
part. cap. 17, p. 216 e ss.
10 Id., Dialogo sul metodo,
Laterza, Roma-Bari, 1989, I, p. 74.
11 Id., Conquista dell’abbondanza, cit., p. 66.
12 Ivi,
p. 67.
13 L’avvenire
di un’illusione, § 6, in Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi,
cit., p. 170.
14 E. M. Cioran, Confessioni e anatemi (1987), tr. it. Adelphi, Milano 2007, p. 133.
[Già su "Vita pensata", febbraio 2011]
[Già su "Vita pensata", febbraio 2011]
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