«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


lunedì 16 gennaio 2012

Attualità de "I vecchi e i giovani" di Pirandello




Nell’ambito della vastissima produzione pirandelliana, giustamente celebrata pressoché per intero, c’è un’opera che ha sofferto di un pregiudizio critico che la vede come fuori posto, una sorta di omaggio anacronistico a un genere, il romanzo storico, di cui un romanzo come Il fu Mattia Pascal, insieme ad altri di altri autori, aveva all’inizio del XX secolo decretato la morte. Si tratta de I vecchi e i giovani, il romanzo più vasto di Pirandello, uscito in parte e a puntate nel 1909, in volume nel 1913 e in versione rivista e definitiva nel 1931. Eppure, curiosa nemesi storica, riletto oggi, questo romanzo è in grado di prendersi una grande rivincita, perché può ancora parlarci e mostrare la sua terribile attualità. Esattamente come ha parlato intorno al 1960 a Leonardo Sciascia (si veda Pirandello e la Sicilia, III, 3) e negli anni Novanta ad Andrea Camilleri (si veda La concessione del telefono a cominciare dall'epigrafe).
In un’epoca in cui la corruzione politica è ormai percepita come inevitabile; in cui il sistema bancario e finanziario si rivela come il burattinaio di politici compiacenti messi lì per difendere gli interessi di una casta autoreferenziale, spesso con meccanismi che contemplano anche i favori sessuali e l’uso delle donne come merce di scambio; in cui la contesa elettorale è ormai quasi solo compravendita di voti attraverso alleanze tra famiglie e gruppi di potere che usano i partiti come contenitori vuoti e i loro simboli come etichette commerciali; in cui i moti di protesta sono anestetizzati con false rappresentazioni mediatiche della realtà o repressi con l’intervento di forze dell’ordine in assetto anti-sommossa; in cui le celebrazioni per i 150 anni dall’Unità si intrecciano con una messa in discussione del meccanismo stesso, spesso viziato dal machiavellismo politico di pochi, del processo che ha portato all’unificazione dell’Italia; in un’epoca come la nostra, dunque, ha davvero ancora parecchie cose da dirci il romanzo che racconta gli anni 1892-1894 in Sicilia e a Roma, con l’esplosione della protesta sociale guidata da Fasci siciliani dei lavoratori, poi soffocata nel sangue dall’ex garibaldino Crispi con la complicità dei preti; con lo scandalo della Banca Romana (spesso artatamente amplificato dalla stampa) che inizialmente travolse Giolitti e Crispi e che successivamente venne insabbiato in sede giudiziaria con occultamenti di documenti compromettenti (siamo a un secolo esatto da Mani pulite); con le carriere politiche di uomini di pezza create attraverso scambi sessuali (il mediocre e viscido Ignazio Capolino ottiene un seggio in Parlamento con il partito clericale in cambio della tacita accettazione della relazione tra la sua giovane moglie Nicoletta Spoto e il suo padrone e padrino elettorale Flaminio Salvo); con i politici ex garibaldini divenuti da vecchi corrotti e collusi con le forze più rapaci, oscurantiste e conservatrici per semplici esigenze di casta, nonché con la discesa in campo della mafia, della massoneria e della chiesa per garantire l’immobilismo e il privilegio di pochi e limitare i danni della protesta sociale degli ultimi, i contadini e i “solfaraj”, tenuti ancora come servi della gleba in una società in cui il nuovo sistema industriale si è innestato su quello feudale.

Qui di seguito propongo un piccolo campione di passi rappresentativi (i numeri tra parentesi indicano nell’ordine la parte, il capitolo e la pagina dell’edizione del romanzo nei Meridiani Mondadori):

Discorso indiretto di Caterina Laurentano al figlio Roberto Auriti, che ha accettato la candidatura al Parlamento:

E qual rovinìo era sopravvenuto in Sicilia di tutte le illusioni, di tutta la fervida fede, con cui s'era accesa alla rivolta! Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l'ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell'altro tenentino savojardo Dupuy, l'incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch'essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; spese pazze, cortigianerie degradanti; l'oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l'impunità agli oppressori... (I, III, M 85-86)

Il tedio spirituale instillato dalla religione nella società civile:

Chi poteva curarsi, in tale animo, delle elezioni politiche imminenti? E poi, perché? Nessuno aveva fiducia nelle istituzioni, né mai l'aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; e considerato ingenuo o matto, impostore o ambizioso, chiunque si levasse a gridarle contro. In quei giorni, più che delle imminenti elezioni politiche, gli sfaccendati parlavano del duello del candidato Ignazio Capolino con Guido Verònica. (I, VI, M 164)

Il cav. Cao, segretario del Ministro Francesco D’Atri, riflette sulla situazione a Roma allo scoppio dello scandalo della Banca romana, al punto che si mette in discussione anche la Rivoluzione:

Ma sì, ma sì: dai cieli d'Italia, in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s'appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto, almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della Città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia. (…) il cav. Cao vedeva in quei giorni ogni piazza diventare una gogna; esecutore, ogni giornalajo cretoso, che brandiva come un'arma il sudicio foglio sfognato dalle officine del ricatto, e vomitava oscenamente le più laide accuse. (…) Certo, lo sdegno del paese nel veder così bruttati di fango alcuni uomini pubblici che nei begli anni dell'eroico riscatto avevano prestato il braccio alla patria, si rivoltava acerrimo, adesso, anche contro la gloria della Rivoluzione, scopriva fango pur lì; e il cav. Cao si sentiva propriamente sanguinare il cuore. Era la bancarotta del patriottismo, perdio! E fremeva sotto certi nembi d'ingiurie che s'avventavano in quei giorni da tutta Italia contro Roma, rappresentata come una putrida carogna. In un giornale di Napoli aveva letto che tutte le forze s'erano infiacchite al contatto del Cadavere immane; sbolliti gli entusiasmi; e tutte le virtù corrotte. Meglio, meglio quand'essa viveva d'indulgenze e di giubilei, affittando camere ai pellegrini, vendendo corone e immagini benedette ai divoti! (…) Gli pareva che tutti si sentissero spiati, scrutati; che alcuni ridessero per ostentazione, e altri, costernati del colore del loro volto, fingessero di sprofondarsi con tutto il capo in letture assorbenti. Per certuni, non ostante il freddo della stagione, i caloriferi erano mal regolati: troppo caldo! troppo caldo! Chi sa in quante coscienze era il terrore che da un momento all'altro gli occhi d'un giudice istruttore penetrassero in esse a indagare, a frugare, armati di crudelissime lenti. (II, I, M 273-275)

Riflessioni del deluso e smanioso Lando Lauretano sui limiti storici del processo unitario:

Soffocati dalle così dette ragioni di Stato gl'impeti più generosi, la nazione era stata messa su per accomodamenti e compromissioni, per incidenze e coincidenze. Un solo fuoco, una sola fiamma avrebbe dovuto correre da un capo all'altro d'Italia per fondere e saldare le varie membra di essa in un sol corpo vivo. La fusione era mancata per colpa di coloro che avevano stimato pericolosa la fiamma e più adatto il freddo lume dei loro intelletti accorti e calcolatori. Ma, se la fiamma s'era lasciata soffocare, non era pur segno che non aveva in sé quella forza e quel calore che avrebbe dovuto avere? Che nembo di fuoco allegro e violento dalla Sicilia su su fino a Napoli! Ancora da laggiù, più tardi, la fiamma s'era spiccata per arrivare fino a Roma... Dovunque era stata costretta ad arrestarsi, ad Aspromonte o su le balze del Trentino, era rimasto un vuoto sordo, una smembratura. Non poteva l'Italia farsi in altro modo? Segno che non erano ancora ben maturi gli eventi, o che eran mancati in alcuni l'energia e l'ardire per secondarli. Troppi calcoli e riflessioni ombrose e tentennamenti e scrupoli e ritegni e soggezioni avevano mortificato la creazione della patria. (II, II, M 309-310)

La retorica socialista sulla Sicilia del membro del Fascio siciliano Cataldo Sclàfani, nella riunione a casa di Lando Laurentano:

Cataldo Sclàfani, tarchiato, con gli occhi un po’ strabi e un barbone che pareva un fascio di pruni, parlava nell’altro crocchio, profeticamente ispirato; diceva con sorridente commozione che là dove prima era spuntata l’alba dell’unità della patria, era fatale spuntasse ora quella più rossa e più fulgida della rivendicazione degli oppressi. (II, II, M 330)

La moderazione del deputato repubblicano Spiridione Covazza, nella riunione a casa di Lando Laurentano:

- Non mi costringete, signori, per falsi riguardi al vostro malinteso amor proprio, non mi costringete ad attenuare d'un punto la verità, con concessioni che farebbero a me e a voi stessi vergogna, e che potrebbero essere perniciose in questo momento! Quanti tra voi conoscono veramente Marx? Quattro, cinque, non piú! Siate franchi! Tutti gli altri non hanno coscienza vera di quel che si vuole: sì, sì, proprio così! né dei mezzi congrui per conseguirlo, infatuati d'un socialismo sentimentale, che s'inghirlanda delle magiche promesse di giustizia e d'uguaglianza. Ma sapete voi che cosa vuol dire giustizia per i contadini e i solfaraj siciliani? Vuol dire violenza! sangue, vuol dire! vuol dire strage! Perché alla giustizia legale, alla giustizia fondata sul diritto e sulla ragione essi non hanno mai creduto, vedendola sempre a loro danno conculcata! Li conosco io, molto meglio di voi, i contadini e i solfaraj siciliani... sì, sì, purtroppo, molto meglio di voi! Voi vi illudete! Voi dite loro collettivismo? ed essi traducono: divisione delle terre, tanto io e tanto tu! Dite loro abolizione del salario? ed essi traducono: padroni tutti, fuori le borse contiamo il denaro, e tanto io tanto tu. (…) Quanti, sbollito il primo entusiasmo, restano effettivamente nei vostri Fasci? Basta ad allontanare il maggior numero la prima richiesta della misera quota settimanale! E quanti Fasci, sorti oggi, non si sciolgono domani? (…) So che voi oggi qua volete stabilire se si debba, o no, secondare la tendenza delle moltitudini a un'azione immediata. So che parecchi tra voi sono contrarii, e io li stimo saggi e li approvo. Un movimento serio come voi l'intendete, non è possibile ancora in Sicilia!  (II. II, M 335-336)

La replica “generazionale” di Cataldo Sclàfani:

Vergognatevi delle vostre accuse! Siamo qua oggi, a Roma, di fronte, due generazioni. Guardate allo spettacolo che dànno i vecchi, e guardate a noi giovani! Domani da qui il Governo, che protegge tutti coloro che dell’amor di patria affagottato e tolto in braccio si fecero scudo per tanti anni ai sassi del popolo censore, manderà in Sicilia l’esercito e l’armata per soffocare con la violenza questo gran palpito di vita nuova che noi giovani vi abbiamo destato! (II, II, M 338)

L’onorevole clericale Ignazio Capolino all’ingegner Aurelio Costa sulla natura di Flaminio Salvo e della politica:

lei pratica con Flaminio da tanti anni, e ancora non s'è accorto che Flaminio non è soltanto uomo d'affari, ma anche uomo politico. Ora la politica, sa? bisogna viverci un po' in mezzo; la politica, signor mio, che cos'è in gran parte? giuoco di promesse, via! (II, III, M 360)


Il vecchio garibaldino Mauro Mortara chiede al giovane socialista rivoluzionario Lando Laurentano che gioventù è mai quella che disconosce i valori risorgimentali della patria (incarnati dal cugino Roberto Auriti, il dodicenne dei Mille ora arrestato per aver fatto da prestanome all’on. Corrado Selmi e non aiutato economicamente da Lando) in nome di ripicche personali (il Selmi era l’amante della donna da lui amata, la cugina Giannetta Montalto, moglie del Ministro D’Atri), e Lando pensa alla risposta senza proferirla, per non turbare il vecchio:

La gioventù? Che poteva la gioventù, se l'avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l'espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d'ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l'opera dei vecchi qua, ora, nel bel mezzo d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre su, nel settentrione, s'irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia, la miseria e l'ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa! (II, V, M 423)

La conclusione filosofica di Cosmo Laurentano, che vede la realtà storica, per quanto drammatica, come una “minchioneria” illusoria, senza senso né scopo, destinata a svanire presto sostituita da un’altra illusione:

Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è più altra realtà... E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà... passerà... (II, VIII, M 509-510)

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