
Naturalmente, non essendo né un latinista né un filologo classico, Odifreddi ha ben presente il problema di affrontare un autore come Lucrezio, visto che del latino ha forse una conoscenza meno che scolastica (avendo fatto studi tecnici per geometri dopo il seminario). I suoi modelli espliciti (cfr. p. 7 e p. 9), piuttosto, sono non certo Canfora, Canali o Dionigi, ma Borges, Eco, Manganelli, Baricco, De Crescenzo e Calasso, cioè esempi di riadattatori liberissimi o teorici del riadattamento post-moderno. Per essere ancora più chiari, Odifreddi, oltre a citare l'Eco della riscrittura ludica in forma di tautogramma di Pinocchio, sa benissimo che nel Diario minimo c'era la vertiginosa recensione borgesiana di un'opera come I promessi sposi, intesa però come se fosse stata scritta da James Joyce dopo il Finnegans Wake. In tal senso, si potrebbe affermare che Odifreddi ri-dica il De rerum natura riscrivendolo identico e nello stesso tempo diversissimo per effetto del riposizionamento cronologico, alla maniera di un Pierre Menard, autore del Don Chisciotte, o di un Hilario Lambkin Formento, autore della Divina commedia (le prime 'tre parole' della Premessa sono "Jorge Luis Borges", non a caso).

Forse questo è il più odifreddiano degli scritti di Odifreddi, proprio per l'esperimento esegetico-letterario di riappropriazione esplicita e creativa. Nella sua versione, Odifreddi, oltre a usare la parola "atomi" (notoriamente mai usata da Lucrezio, che invece preferisce parole come "semi", "elementi" e "corpuscoli"), peraltro usata già da altri traduttori, arriva a servirsi di espressioni prima facie assurde come "buco nero" (p. 49), salvo poi spiegare in sede di commento il perché (p. 50). L'operazione di Odifreddi, in sostanza, è la seguente: nelle pagine dispari ha messo una sua versione libera del testo integrale, mentre nelle pagine pari ha fornito una piccola enciclopedia illustrata dei risultati delle scienze attuali prendendo spunto dai passi dell'opera stampati in blu (ci sono anche passi in corsivo, segnalati come più significativi, e passi in rosso, spiegati nei commenti precedenti o successivi). Certo, a volte il nesso è un po' arbitrario e pretestuoso, ma il suo scopo è appunto quello di trarre spunto da certe intuizioni anticipatrici di Lucrezio per celebrare la scienza moderna, di cui il poeta è il padre nobile e oracolare, il guru, l'icona. Non è importante tanto il fatto che Lucrezio ci abbia preso o meno, per esempio per quanto riguarda la tavola periodica degli elementi, le leggi mendeliane dell'ereditarietà, la selezione naturale darwiniana, la spiegazione ottico-fisica dell'arcobaleno e delle immagini riflesse allo specchio, e così via: quello che importa, e che Odifreddi sottolinea, è che egli abbia guardato nella direzione giusta, che è quella dell'approccio materialista, riduzionista e atomista.
Odifreddi, quindi, mira al puro contenuto, facendosi aiutare anche dalle osservazioni su Lucrezio degli scienziati del passato, a cominciare da Newton. A mio parere, l'approccio "infedele" di Odifreddi è sintetizzato mirabilmente dalle parole contenute in una lettera di James Clerk Maxwell del 1866 a Hugh Munro (curatore di un'edizione inglese del poema), non a caso citate per due volte (p. 23 e p. 68) e accompagnate dalla raccomandazione di tenerle bene a mente in relazione a certi passi: «Le sue parole [II, 100-111, sul moto caotico degli atomi] sono una così buona illustrazione della teoria moderna, che sarebbe un peccato che significassero qualcosa di diverso!».
Tutto qui, dunque: un brillante gioco letterario ed erudito in cui un testo antico, bistrattato e diffamato, ma segretamente plagiato dai primi pensatori cristiani, perduto per tutto il Medioevo, riscoperto all'inizio del XV secolo da Poggio Bracciolini e di nuovo osteggiato dalla Chiesa e dalla cultura dominante ad essa legata, viene usato per una sana polemica tutta moderna in favore di una concezione laica e scientifica del mondo (e qui non si può non pensare all'irriverente ed esilarante accostamento, a p. 190, tra l'apoteosi di Epicuro compiuta da Lucrezio nel poema e le odierne apoteosi a furor di popolo, come accadeva per gli imperatori romani, di personaggi come Padre Pio, Madre Teresa di Calcutta e Giovanni Paolo II).
P. S. Incuriosito dalla vecchia e a dir poco creativa traduzione di Alessandro Marchetti (1633-1714) in 10.724 endecasillabi sciolti, più volte citata da Odifreddi, ne ho scaricato una versione digitale e ho fatto una scoperta gustosissima. Odifreddi, commentando l'omaggio di Lucrezio a Empedocle e alla Sicilia in I, 717-733 (cfr. p. 50), lamenta l'"imperdonabile svista" del poeta, perché, dicendo che l'isola non ha prodotto ingegno migliore di quello di Empedocle, dimentica Archimede. Ebbene, Odifreddi ricorda che Marchetti, da matematico, colmò la lacuna e interpolò i versi introducendo Archimede, ma a sua volta omette di dire che Marchetti fece molto di più, perché nel mazzo dei siciliani infilò pure il suo maestro Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), un galileiano messinese autore, tra l'altro, di un importante trattato di vulcanologia sull'eruzione dell'Etna del 1669:
Ma non sembra però che qui nascesse
Cosa mai più mirabil di costui,
Nè più bella e gentil, più cara e santa.
Se non se forse in Siracusa nacque
Il divino Archimede, e nuovamente
Nella nobil Messina il gran Borelli
Pien di filosofia la lingua e 'l petto,
Pregio del mondo e mio sommo e sovrano,
Mio maestro, anzi padre, ah! più che padre.
(I, 952-960)
E poco prima (525-532) Marchetti aveva pensato bene di citare pure Gassendi, tanto per non sbagliare.
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