«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


mercoledì 27 dicembre 2017

UN LAZZARO DELLA LETTERATURA


Uno dei casi letterari italiani del 2017 si potrebbe definire un Lazzaro letterario, perché si tratta della vera e propria resurrezione, grazie all’opera negromantico-editoriale di alcuni uomini di buona volontà, di un romanzo italiano nato e morto esattamente 40 anni fa (non ci si stupisca delle metafore cristiane: almeno, non prima di aver conosciuto la parabola dell’autore, passato da un anticlericalismo lucido e razionalista a una sorta di bigottismo paranoico e delirante). Quello che colpisce, tuttavia, è il percorso planetario attraverso cui si è arrivati alla riedizione Frassinelli, a settembre, di Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria (1924-2009). A riscoprire il romanzo, pubblicato nel 1977 dalle Edizioni Il Formichiere e forse dimenticato persino dal suo stesso autore (che in seguito non ha più scritto altri romanzi), è stato uno studioso australiano, Ramon Glazov, che lo ha ha tradotto e introdotto per un’edizione americana, uscita nel febbraio di quest’anno per i tipi del gruppo Norton. Ma perché gli americani si sono interessati a questo romanzo breve italiano di 40 anni fa, di cui quasi nessuno in Italia si ricorda? Semplice: perché il nostro presente modifica ogni volta la nostra percezione del passato che, come un lago che si prosciuga o un mare che si ritira, mostra aspetti sempre nuovi e ci fa scorgere, per esempio, dei “precursori” di fenomeni che oggi dominano la nostra vita. Nel romanzo di De Maria, infatti, c’è una straordinaria invenzione narrativa, la Biblioteca, collocata in un’ala del famoso Cottolengo di Torino, che anticipa in modo impressionante (senza alcun bisogno di Internet) la dinamica socio-psicologica che sta alla base dei “social media”, e in particolare di Facebook. Non solo, ma il romanzo è pieno di echi che provengono da Poe e Lovecraft e per molti versi ricorda Stephen King (The Shining è dello stesso anno e le somiglianze di famiglia sono numerose!), e già questo basta per capire l’interesse degli americani. Attraverso una serie di passaggi ulteriori, poi, Frassinelli contatta nel novembre 2016 lo scrittore, traduttore e consulente editoriale Giovanni Arduino, per proporgli la curatela di una riedizione del romanzo in Italia. Arduino firma così una densa e bella postfazione per parole chiavi “in rigido ordine alfabetico”, come dice lui stesso, e in più realizza un breve e delizioso ebook, Il diavolo è nei dettagli. La storia de ‘Le venti giornate di Torino’, in cui racconta tutta questa incredibile vicenda, fornendo anche un ritratto drammatico della vita di De Maria, morto, come ricorda la figlia, “mezzo barbone, tutto matto, alcolizzato e distrutto dall’Halcion”.
Non direi altro su questo romanzo, dalla cui lettura si esce turbati, perché parla di morti misteriose in una Torino spettrale e di una psicosi collettiva che ci interroga ancora (la Biblioteca “social” ante litteram), ed è percorso da un senso di indicibile minaccia lovecraftiana. 
Vorrei solo sottolineare la cosa che più mi ha colpito di tutta questa vicenda. Arduino ci informa delle amicizie importanti di De Maria - Umberto Eco, Italo Calvino ed Elémire Zolla. Con i primi due ha addirittura collaborato per alcuni lavori, eppure, per esempio, nel Meridiano delle “Lettere 1940-1985” e nei due tomi dello sterminato Meridiano dei Saggi di Calvino non c’è alcuna menzione del nome di De Maria, che pure nel suo romanzo sembra rendere omaggio almeno a Marcovaldo e alla Giornata di uno scrutatore. Non solo. Nel terzo capitolo del romanzo, quello in cui l’io narrante dell’investigatore improvvisato e improvvido racconta la sua visita ai resti della Biblioteca, mi pare di scorgere un oscuro (e sfottente?) riferimento all’amico Eco: “Trovai accanto a un titolo di Liala quello di un trattato di semiologia”. La Biblioteca di De Maria riecheggia sicuramente quella di Borges e anticipa di pochissimi anni quella dell’abbazia di Eco, eppure non ricordo alcun riferimento di Eco a De Maria, a parte i riferimenti contenuti nella prefazione a M. Straniero-E. Jona-S. Liberovici-G. De Maria, Le canzoni della cattiva coscienza, Bompiani 1964 (stampata anche in Apocalittici e integrati, «I suoni e le immagini - La canzone di consumo»).
Insomma, è risorto un romanzo “maledetto” di un autore a dir poco strambo, dimenticato un po’ da tutti per troppo tempo.


sabato 9 dicembre 2017

DUE NUMERI PRIMI SOLITARI




È da tempo che la faccia del solitario di Providence e quella del solitario de l’Aja mi appaiono affiancate nell’immaginazione, forse perché la loro vaga somiglianza allude ad altre affinità, più profonde e significative. Non è facile, infatti, resistere al fascino di questi due sognatori di universi metafisici (e in quanto tali non a caso entrambi molto cari a Borges) che tanto più abitarono i loro mondi radicalmente alieni, rispetto alla tradizione occidentale dominante, quanto più il mondo reale in cui vissero li tenne ai margini, condannandoli, anche con il loro stessa aiuto, a una solitudine quasi assoluta e senza rimedio. Certo, le loro fantasie cosmogoniche si pongono agli antipodi della scala della razionalità, se supponiamo che questa vada dalla pura irrazionalità a una (presunta) dimostratività “euclidea”: secondo la ben nota gnoseologia dello stesso Spinoza, il cui sistema metafisico è un frutto intellettualistico quintessenziale dell’astrazione logico-filosofica, la mitologia di Lovecraft è un prodotto del livello più delirante di un’immaginazione mitopoietica patologicamente iperattiva. Eppure, in senso squisitamente borgesiano, si tratta pur sempre di due capitoli della letteratura fantastica e, forzando le cose fino allo scandalo, l’inumano e primordiale Cthulhu, con la sua forma che ricorda vagamente un’immensa e voracissima piovra, è una possibile raffigurazione quasi fumettistica del Dio di Spinoza, pensato come un’infinita sostanza indeterminata costituita da infiniti attributi che si dispiegano in modo tentacolare in altrettanti modi infiniti, ciascuno dei quali si increspa in un’infinità di modi finiti (noi esseri umani non essendo che increspature finite riconducibili, attraverso i modi infiniti dell’intellezione e del movimento, ai due attributi infiniti del pensiero e dell’estensione).
Ora, poiché è noto che Lovecraft ha accompagnato la propria produzione letteraria con vari interventi saggistici, alcuni dei quali di natura squisitamente filosofica, mi sono chiesto se per caso si fosse mai confrontato con Spinoza. Ebbene, cercando una risposta nel Mammut Newton Compton delle opere di Lovecraft, ho tovavo una cosa molto interessante. In un saggio dal titolo “Alcune cause di autoimmolazione. I motivi per cui gli esseri umani si sottomettono volontariamente a situazioni spiacevoli” (e si noti l’ironia del titolo, perfettamente consonante con il tema di questa nota), incluso nella sezione “Saggi sulla visione del mondo”, ci sono le uniche tre occorrenze del nome di Spinoza e tutte e tre si esauriscono nel giro di mezza pagina. Ma la cosa veramente notevole è il modo in cui Lovecraft parla di Spinoza, perché l’impressione vaga di un’affinità elettiva vi trova una sorprendente conferma. Lovecraft inizia il suo saggio sulle motivazioni dell’agire umano, con particolare riferimento all’apparentemente paradossale comportamento improntato al masochismo e all’autolesionismo, con un excursus storico che dalla psicologia platonica arriva fino alla psicoanalisi freudiana; ed è nel corso di questa breve storia della psicologia dinamica che Lovecraft menziona Spinoza, cogliendo in modo acuto tutta la modernità delle sue analisi psicobiologiche contenute nell’Etica. Ma la cosa ancora più interessante è che in tal modo Lovecraft, alla luce soprattutto delle pagine successive del saggio, nelle quali discute la teoria degli “istinti” e delle “emozioni” di Mac Dougall, anticipa di oltre settant’anni il grandissimo omaggio reso a Spinoza da Antonio Damasio nel suo studio neuroscientifico delle “emozioni” e dei “sentimenti” (inutile aggiungere che del saggio di Lovecraft non v’è traccia in Alla ricerca di Spinoza).
Ed ecco tutto lo Spinoza di Lovecraft:

«Spinoza superò di gran lunga Descartes in profondità e razionalità di vedute, avvicinandosi, nel suo giudizio sulle motivazioni umane, alle concezioni più moderne. Comprese che gli istinti primitivi sono desideri di conservare ed espandere l’individuo, e scoprì che essi subiscono l’influenza di emozioni più complesse. Perciò, ne dedusse che ad un terzo livello (pensiero – emozione – istinto), le azioni sono ispirate dal naturale impulso a sopravvivere che nasce nell’uomo, il quale opera attraverso canali diversi e talvolta paradossalmente contraddittori, derivando d’altra parte da un’infinita catena causale che parte dalle condizioni originarie del cosmo. Spinoza, che tornò alla saggia concezione ellenica della felicità come lo scopo della vita umana, può essere considerato (nonostante il suo debito con Descartes) come il vero padre delle idee moderne relative ai valori e alle motivazioni dell’uomo. Nella nostra civiltà, Hobbes ha sottolineato in maniera simile la predominanza dell’elemento costituito dalla volontà di sopravvivenza, o interesse personale, tra le motivazioni umane, anche se gli mancavano del tutto la sottigliezza e la profondità di uno Spinoza».

martedì 21 novembre 2017

PER GRAMSCI

Qualche settimana fa, a una cara amica che mi chiedeva cosa stessi leggendo, per stuzzicare la sua curiosità di grande lettrice e sapendo che per ragioni legate al suo percorso di studi assai probabilmente l'opera non si trovava nel suo carniere, ho risposto: "Il libro più bello che esista". 
Naturalmente si trattava di una risposta esageratissima, oltre che scorretta, soprattutto considerando che nessun libro può essere il più bello che esista, e meno che mai può esserlo un libro che il suo autore non ha mai scritto intenzionalmente. Com'è noto, ci sono voluti circa 50 anni (1947-1996) per dare una forma (forse) definitiva alle Lettere dal carcere di Gramsci e non sappiamo se il futuro ci riserverà altre sorprese con ulteriori ritrovamenti e quindi ulteriori edizioni. Eppure, ancora oggi il piacere intellettuale e il turbamento emotivo che questo libro induce nel lettore sono unici. Ma perché? Quali sono i segreti di questo libro? Tra i molti che si potrebbero elencare, e che hanno dato vita a una bibliografia sterminata, ne vorrei evidenziare soprattutto due.

1) Più si immerge nel testo più il lettore ha l'impressione che la prodigiosa forza stilistica e affabulatoria delle lettere stia nella condizione particolarissima della loro genesi. Viene in mente Calvino, soprattutto quello che faceva l'elogio dei vincoli e delle regole come elementi che scatenano la creatività letteraria, sfatando il mito romantico dell'ispirazione libera e fulminea: i veri artisti sono quelli che agiscono dall'interno di una gabbia di costrizioni normative (si pensi ai lipogrammi e a Perec), non quelli che si abbandonano all'espressione disordinata e traboccante. Il lettore che afferra questo aspetto dell'opera e vi rimane aggrappato verrà gratificato dallo stesso Gramsci a pagina 782 dell'edizione Sellerio, allorché questi, ormai quasi libero ma debilitato e ricoverato nella clinica romana Quisisana, scrive alla moglie il 24 novembre 1936: «Il piú delle volte sono pedante senza volerlo: mi sono fatto uno stile di circostanza, sotto la pressione degli avvenimenti, in questi dieci anni di molteplici censure». Ecco, è questo il punto: Gramsci scrive quando e quanto gli è consentito, cioè in un tempo e in uno spazio fissati (a volte arbitrariamente) dalle regole carcerarie, scrive quello che può scrivere (mai di attualità politica, solo di argomenti generali di cultura oppure di faccende personali e familiari) e sa che tutto quello che scrive è "pubblico" (a Giulia, 7.12.31), nel senso che è passato al setaccio dalla censura, sempre attenta alle comunicazioni in codice (Gramsci è considerato un detenuto pericolosissimo per la sicurezza dello Stato). Questa selva di vincoli, tuttavia, non fa che accendere la creatività di Gramsci, il quale riesce a realizzare dei capolavori di equilibrio narrativo, in cui l'esattezza e l'allusione si alternano trasformando ogni lettera in una macchina testuale in grado di dare vita a quella che in altro contesto egli chiama "fantasia concreta" («Ti voglio solo spiegare ciò che intendo, press'a poco, per fantasia concreta: l'attitudine a rivivere la vita degli altri, così come è realmente determinata, coi suoi bisogni, le sue esigenze, ecc.», a Giulia, 1936, ed. Sellerio p. 788).

2) Dal punto di vista più strettamente contenutistico, oltre alla tragica storia di un uomo sconfitto e stritolato dal potere che ricorda diverse altre storie analoghe (Socrate, Gesù, Boezio, Bruno, Vanini, ecc.), c'è qualcosa che non smette di ossessionare il lettore e che trasforma il libro in uno dei più intriganti romanzi epistolari che siano mai stati scritti, con personaggi tutti reali. È impossibile non chiedersi quale sia, dietro le reticenze e il linguaggio sorvegliatissimo, la vera dinamica del triangolo sentimentale Tania-Antonio-Giulia. Chi è questa cognata, sorella maggiore della moglie del detenuto, che gli sta accanto per dieci anni con una devozione estrema, mentre la moglie non riesce a fargli visita neanche una volta, nonostante le richieste talvolta insistenti del marito? Perché tutte quelle precisazioni di Gramsci sulle difficoltà emotive che incontra quando cerca di scrivere alla moglie (affetta da depressione e da altri disturbi psichici), mentre con Tania riesce a dialogare su tutto con una naturalezza sconcertante, anche nei non infrequenti momenti di tensione (ci sono lettere in cui Gramsci rimprovera la cognata, che spesso non segue alla lettera le sue istruzioni, con parole terribili)? Era tra loro che c'era il vero amore oppure, come insinuano certe ricostruzioni un po' romanzesche da "spy story", lei era una spia russa che, insieme a Sraffa (altra spia comunista, che agiva sotto copertura nell'ambiente universitario inglese) e per conto di Togliatti, doveva controllare da vicino il dirigente di partito italiano divenuto scomodo per le sue posizioni in merito ai conflitti politici in Russia nella fase iniziale di consolidamento del potere di Stalin? Da qui l'elemento romanzesco: si ha spesso il sospetto che nulla sia come appare e lo stesso Gramsci più volte si chiede (e lo dice chiaro alla cognata) se è tenuto in carcere dallo Stato o dagli "amici", familiari compresi.

Anche solo per i due aspetti sopra evidenziati, le lettere di Gramsci dal carcere costituiscono ancora oggi una lettura indimenticabile. Il resto, come ad esempio il loro carattere di introduzione imprescindibile ai Quaderni, viene da sé. (13.6.17)

sabato 28 ottobre 2017

Generare parole oscure

Il libriccino di Massimo Cacciari sulla Madonna (Generare Dio, Il Mulino 2017, 105 pp., € 12) lo racconterei così. C’è un raffinatissimo e coltissimo filosofo di cui non è chiaro il rapporto con la religione cristiana (ha origini operaiste ma ama l’esegesi più dei preti, e non si capisce a quale titolo, e soprattutto a quale scopo, la coltivi con tanta insistenza), che tuttavia padroneggia meglio di un gesuita, di uno gnostico e di un mistico messi insieme. Essendo famoso, costui ha assoluta necessità di essere perennemente presente nelle librerie con opere fresche, perché qualcosa la vende a prescindere, anche se quasi nessuno capisce quello che scrive (nemmeno amici e colleghi come Vattimo, che pure non brilla per la chiarezza). Dovendo questa volta trovare un modo per rifilare ai lettori-consumatori le sue sterminate e inutili conoscenze della letteratura religiosa, e non avendo niente di davvero preciso e interessante da proporre, stabilisce d’imperio che alcune “icone” di Maria, così come sono dipinte nelle annunciazioni, nelle Madonne con Bambino, nelle crocifissioni, nelle deposizioni e nelle pietà da Masaccio, Simone Martini, Lippo Memmi, Piero della Francesca, Beato Angelico, Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Roger van der Weyden e qualcun altro, esprimono qualcosa di straordinariamente significativo per l’Evo nostro, cioè per l’Occidente, che poi è anche l’Età del Figlio (scritti così), in contrapposizione, per esempio, all’immagine astratta, asessuata e impersonale che di Maria aveva la gnosi. Questo contenuto misterioso naturalmente non è mai chiarito, e tuttavia esso c’è anche oltre le intenzioni dei pittori (cfr. p. 43: “sia consapevole o no chi la dipinge”, in riferimento, nel caso specifico, all’”icona del bimbo”), perché quello che conta è il commento ultra-speculativo del Nostro, il quale promette una mariologia filosofica nelle vesti di una “fenomenologia dell’invisibile nella rappresentazione sensibile di Maria” (p. 11).
Ora, uno dei problemi principali di questa prosa altisonante e grondante di latinorum, graecorum ed heideggerorum è che non si capisce quale sia il patto semantico stipulato con il povero lettore. Mi spiego. Se io leggo il Gesù di Ratzinger, non ho alcun problema: l’autore è onesto e mi mostra chiaramente le sue carte, dicendo che egli crede nell’assoluta verità storica delle cose di cui parla (nascita da una vergine, miracoli, morte e resurrezione di Cristo, per dire), per cui capisco perfettamente quello che vuole comunicarmi, anche se poi magari non condivido una parola. Con Cacciari, invece, non c’è niente di tutto ciò: egli cita con padronanza sconcertante i vangeli canonici e quelli apocrifi, i mistici, i teologi, più Dante e qualche poeta contemporaneo particolarmente ispirato, ma quando nomina con disinvoltura gli evangelisti, gli apostoli, Maria, Sophia, il Figlio, il Signore, Dio, il Padre, l’Uno, il pleroma ecc., fino all’Ombra che non vela ma rivela, cui è dedicato un intero capitolo-supercazzola, non chiarisce nemmeno di striscio quali siano le sue regole del gioco semantico. È Cacciari un realista assoluto? È un realista interno? È allegorico? Parla per figure concettuali para-hegeliane? Il “Da-sein” della donna Maria (p. 91), “Madre di tutti gli essenti” (p. 94), ha uno statuto ontologico interno alle icone e al loro senso o è inteso in senso heideggerianamente forte? Non si sa. O, per lo meno, qui non è mai detto.
Oppure mi è sfuggito.


P. S. Uno dei tratti dello stile di Cacciari è l’insostenibile seriosità della sua “voce”. Mai un cedimento all’ironia, mai una battuta di spirito che smorzi l’incanto dell’esegesi speculativa, perché per lui tutto, nella mitologia e nell’iconografia cristiane, è profondissimo e decisivo per il destino dell’Occidente e per il suo rapporto col divino. Eppure, anche nell’ambito del suo tema c’è qualche nota curiosa e un po’ stonata. Per esempio, mi sarebbe molto piaciuto vederlo alle prese con la descrizione dell’annunciazione di Lorenzo Lotto che sta a Recanati: il Dio sulla nuvola che sembra stia preparandosi a un tuffo, la faccia di Maria che sembra dire, rivolta al pubblico, “Scusate, ma questi che vogliono da me?”, i capelli del messaggero della serie “Sono arrivato in moto” e il gatto che schizza via incazzatissimo, come sarebbero entrati nello schema interpretativo di Cacciari?

lunedì 30 gennaio 2017

SERENDIPITA'

Riapro per consultazione il classico testo di Searle sulla filosofia della mente e realizzo che non conosco affatto la fonte del disegno della copertina. Anzi, mi rendo conto di non averla mai osservata attentamente. Esplorandola con una lente di ingrandimento, mi accorgo che si tratta di una mirabile rappresentazione dell'architettura cognitiva e dei contenuti della conoscenza umana. Ecco il mondo sensibile, costituito dai quattro elementi del pensiero antico, che è connesso ai cinque sensi e si proietta sull'anima sensitiva, collocata nel lobo frontale. Questa, attraverso la sua parte immaginativa, genera un mondo "immaginabile", costituito dalla proiezione "in ombra" del mondo sensibile. Essa, inoltre, è collegata attraverso una sorta di filo, chiamato "verme", all'anima cogitativa ed estimativa, situata all'altezza del lobo parietale, dove si articola in mente, intelletto e ragione. Quest'ultima anima è collegata all'anima che memorizza e muove, collocata al confine tra i lobi parietale, temporale e occipitale. In quanto memoria, essa custodisce i ricordi e le immagini del mondo sensibile, di quello intelligibile e di quello "immaginabile"; in quanto centro del movimento, invece, essa opera attraverso la parte estrema del cervello (il cervelletto?) e il midollo spinale.  

Fin qui il disegno riportato sulla copertina del libro di Searle. Ma da dove diavolo viene? Il massimo che la casa editrice Boringhieri sa dire nel colophon è questo: "Schema grafico della copertina di Pietro Palladino e Giulio Palmieri". Non mi resta che tentare la ricerca in rete. Come fare? Lancio su Google immagini alcune parole prelevate dal disegno e mi affido alla fortuna, che mi viene incontro sotto le vesti di un articolo in tedesco in cui l'immagine è riportata con la preziosa didascalia: si tratta di un disegno contenuto nell'opera del famoso medico, alchimista, astrologo, neoplatonico, cabalista e rosacrociano inglese Robert Fludd, Utriusque cosmi, maioris scilicet et minoris, metaphysica physica atque technica historia (1617-19), che ricordo vagamente e quasi esclusivamente attraverso i numerosi riferimenti contenuti nel Pendolo di Eco. Naturalmente in rete è possibile scaricare la versione digitalizzata della prima edizione della monumentale opera e il mio disegno si trova a pagina 217 del secondo tomo, di cui sotto riporto il frontespizio. Sfogliare pagina per pagina un'opera del genere è un piacere indescrivibile per gli occhi, perché le innumerevoli illustrazioni - che riguardano tutto, dalla cosmografia alla notazione musicale, dalla geometria alle fortificazioni, dalle tavole numeriche a quelle anatomiche, all'insegna dell'idea ermetica di base che microcosmo e macrocosmo siano profondamente interconnessi - sono di una bellezza che toglie il fiato. 

Trovato il disegno, l'ultima sorpresa è data dalla scoperta che la versione usata per la copertina del libro di Searle è monca, perché vi è stato eliminato addirittura il mondo più importante, cui si accede grazie all'anima cogitativa ed estimativa, cioè tramite le facoltà cognitive superiori della mente, dell'intelletto e della ragione. Si tratta del mondo intellettuale, costituito dalla Trinità, con lo Spirito Santo che procede sia dal Padre genitore che dal Figlio genito, e dalle nove schiere angeliche (serafini, cherubini, dominazioni, troni, potestà, virtù, principati, arcangeli e angeli), che a noi italiani il Poeta ha reso familiari.


domenica 22 gennaio 2017

IL CARNEADE SICULO DI ARISTOTELE

Prima pagina della Metafisica nella classica edizione
italiana Rusconi 1993 curata da G. Reale.
C'è un dettaglio nella prima pagina della Metafisica che mi ha sempre colpito. A un certo punto Aristotele si appoggia all'opinione di un tale Polo sul rapporto tra arte ed esperienza, e si tratta del primo nome in assoluto che compare in un testo che, per il pensiero occidentale, equivale più o meno a ciò che per la storia umana in generale ha significato l'invenzione della ruota.
Ma chi era costui? La cosa più interessante, credo, non è tanto il fatto che si tratti di un retore minore discepolo di Gorgia e originario di Agrigento. Certo, anche questo è significativo: il primo autore citato da Aristotele nel primo dei suoi fondamentali trattatelli sulla "filosofia prima" - che tra l'altro contiene la definizione pressoché definitiva del "sapere" come scienza delle cause e dei principi primi, nonché la prima sintetica storia ragionata della filosofia che sia stata scritta - è un oscuro sofista siciliano che oggi ci è noto quasi esclusivamente attraverso Platone, il quale lo cita soprattutto nel
Gorgia, in cui è tra i personaggi che prendono la parola, e poi fuggevolmente nel Fedro e nel Teagete (Aristotele non lo citerà più, né nella Metafisica né nelle altre  sue opere pervenuteci). Tuttavia, quello che mi colpisce davvero è il modo in cui Aristotele lo evoca, perché è qui che avvertiamo maggiormente la distanza abissale di un testo che pure, per altri versi, è ancora attualissimo. Aristotele sta parlando come un epistemologo, uno scienziato cognitivo, un etologo e un entomologo di oggi, e dice cose che potremmo ancora sottoscrivere quasi interamente (sull'udito delle api, per esempio, non c'è ancora pieno accordo, anche se ormai è in genere riconosciuto e collocato nelle antenne). Eppure all'improvviso egli tira fuori una fonte che ci rivela il suo pubblico  in realtà ristrettissimo, perché è come se il testo fosse rivolto ai quattro amici che avevano completa familiarità con i testi del maestro Platone. Quello che egli dice su Polo, infatti, come ci informano di solito le note ad locum, sembra prelevato direttamente da una battuta messagli in bocca da Platone nel Gorgia (448c), a meno che non si pensi (ma mi pare poco plausibile) che sia Aristotele che Platone facessero riferimento, indipendentemente l'uno dall'altro, a un detto di Polo così celebre da essere passato in proverbio, al punto da non aver più bisogno di essere accompagnato dalla menzione della collocazione precisa nell'opera dell'autore. In tal senso la citazione ha qualcosa di borgesiano e inquietante, perché, per quanto ne sappiamo, Polo, i suoi detti e le sue orazioni (cfr. Fedro 267b-c) potrebbero anche essere stati sognati da Platone e Aristotele comincia la Metafisica chiamando in causa un personaggio finzionale.
Insomma, quello che mi colpisce è proprio questa tensione tra particolare e universale, tra l'occasione momentanea e gli eoni della nostra storia, tra un punto preciso dello spaziotempo e la storia globale del pensiero: da un lato è come se stessimo leggendo la corrispondenza privata ("esoterica") di un club esclusivo di alcuni amici che conoscevano a memoria (o quasi) i dialoghi di Platone, o se non altro il Gorgia, dall'altro, invece, non abbiamo alcuna difficoltà a immaginare che Aristotele stia parlando proprio a noi, lettori del XXI secolo, nonché al senso comune di buona parte dell'umanità vissuta tra noi e lui.



domenica 23 ottobre 2016

ECO E DAN BROWN, ABSIT INIURIA VERBIS




Inferno di Ron Howard, come operazione di trasposizione cinematografica di un testo narrativo, mi ha ricordato Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud. Entrambi i registi hanno potuto lavorare con la consulenza - e persino alla presenza (vedi foto) - dell'autore del romanzo ed entrambi, sotto l'apparenza di una pedissequa fedeltà di superficie, hanno modificato l'opera nel profondo, cambiando addirittura in modo clamoroso i finali.
Così come chi ha visto il film Il nome della rosa e non ha letto il romanzo può pensare erroneamente che anche in quest'ultimo ci siano un'uscita alla Teseo dal labirinto della Biblioteca, un rogo spettacolare di eretici con salvataggio in extremis della giovane "strega" e la morte del feroce inquisitore causata dalla sommossa popolare, allo stesso modo chi vede il film Inferno senza conoscere il romanzo può pensare erroneamente, per dirne solo una, che in quest'ultimo si parli di un pazzo che, per risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale, vuole decimare l'umanità diffondendo la peste o qualcosa di simile (e invece il romanzo parla essenzialmente di transumanesimo, di ingegneria genetica e di selezione artificiale post-darwiniana).
Naturalmente è ridicolo esigere la "fedeltà" quando persino gli autori dell'opera-fonte avallano il "tradimento", e quindi occorre sempre tenere presente che le due opere vanno godute separatamente, la caccia comparativa alle modifiche essendo solo un intrigante gioco per gli appassionati.
Prendiamo per esempio un punto del film (apparentemente) fedelissimo al romanzo: il volo di Vayentha dal soffitto del Salone dei cinquecento di Palazzo Vecchio. Ron Howard ha fatto del suo meglio e ci ha regalato una scena davvero spettacolare, riproducendo in gran parte quello che il lettore della corrispondente pagina del romanzo è portato a raffigurarsi.
Ma è davvero tutto qui? No, perché c'è quella frase di chiusura dell'episodio che non ha nulla a che vedere con la descrizione di una caduta mortale e che segna il confine invalicabile tra arte della parola scritta e arte dell'immagine in movimento: «Poi, con un brusco schianto, tutto il mondo di Vayentha svanì nel nulla» («Than, with a sudden crash, Vayentha's entire world vanished into blackness», cap. 48). Si può avere anche l'opinione peggiore sul romanziere Dan Brown, ma qui egli si ricollega alla grande tradizione della letteratura occidentale, racchiudendo in una sola frase un'intera visione del mondo. La si confronti, infatti, con la formula usata due volte da Virgilio (l'amichetto di Dante che da parte sua imitava Omero) per descrivere prima la morte di Camilla (XI, 831) e poi, chiudendo così l'Eneide, quella di Turno (XII, 952): «vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras». Le due formule, come si vede, esibiscono tutta la forza espressiva della parola poetica, perché in uno spazio ridicolmente breve riescono a riassumere intere concezioni filosofiche sul passaggio dalla vita alla morte.