«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


lunedì 9 aprile 2012

Note sparse sulla "Vita di Apollonio di Tiana" di Filostrato





«Nihil umquam memini me legere deterius, lectuque minus dignum». Così Aldo Manuzio, allorché diede alle stampe, tra il 1501 e il 1502, la prima edizione moderna del testo in greco della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato. Analogo disprezzo "ideologico", oltre mezzo millennio prima, aveva espresso Fozio nella sua Biblioteca (cfr. codd. 44 e 241). Eppure, Fozio coi suoi due "codici" (il secondo dei quali è una sintesi dettagliatissima degli otto libri dell'opera, seguita da una scelta di passi esemplari per il loro bello stile) e Manuzio con la sua editio princeps hanno contribuito in maniera determinante a trasmettere fino a noi un'opera che, riletta con occhiali smagati e postmoderni, è in grado di stupirci con i suoi itinerari fantastici e calvinianamente leggeri, la sua saggezza lussureggiante ed esotica e le sue testimonianze impagabili sulle visioni ed evasioni culturali della corte imperiale romana dei primi decenni del III secolo, ormai verso un declino irreversibile. Negli ultimi due degli otto libri, poi, l'incontro-scontro tra Apollonio e l'imperatore Domiziano è una mirabile "figura" hegeliana del filosofo che, rivendicando la propria libertà, sfida e confonde il tiranno; e in tal senso, il lunghissimo § VIII.7, cioè l'autodifesa di Apollonio in tribunale (che Filostrato riporta e presumibilmente inventa, e che Apollonio in realtà non pronuncerà mai perché a un certo punto sparisce magicamente dall'aula per ricomparire dopo poche ore presso l'odierna Pozzuoli, dove lo attendono trepidanti gli amici Damis e Demetrio), è un vertice dell'oratoria giudiziaria tardoantica, le cui implicazioni politico-filosofiche profonde, come osserva lo stesso Apollonio in apertura, sono forse più importanti di quelle della ben più celebre Apologia di Socrate.  






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Come finzione ermeneutica, per creare cortocircuiti inediti di senso mi piace immaginare che l'autore di questi versi:

Fino all'ora del tramonto giallo
quante volte avrò guardato
la poderosa tigre del Bengala
percorrere su e giù il tragitto prefissato
dietro le grosse sbarre,
senza sospetto ch'erano il suo carcere

abbia anche scritto il seguente passo, in cui si descrive il menu del pranzo di un re indiano del primo secolo:

Qui sono imbanditi pesci e uccelli, e sono imbanditi pure leoni interi e gazzelle, e maiali e cosce di tigri: rifiutano infatti di mangiare le altre parti di quest'animale perché, a quanto dicono, alla sua nascita solleva le zampe anteriori verso il sole che sorge.

Si tratta rispettivamente dei primi versi de L'oro delle tigri di Borges e di un passo della Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato (II, 28). Ma per sostenere meglio la finzione dell'attribuzione del passo di Filostrato a Borges, all'India aggiungerei la Cina facendo scendere in campo la celebre classificazione degli animali secondo l'enciclopedia cinese immaginata in un passo famoso di Altre inquisizioni

Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s'agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.


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LE SCIMMIE E IL PEPE. È ben noto che sugli alimenti è fiorita ogni sorta di leggenda mitica sin dai tempi più remoti. Anche il pepe ha le sue e da Google si può venire a sapere che in età imperiale si era diffusa la credenza che a coltivare il pepe fossero le scimmie. Ebbene, trovo in Filostrato una delle fonti principali (se non addirittura la principale) su questa credenza, e si tratta di una pagina stupenda che coniuga pura biologia fantastica con argute osservazioni naturalistiche ed etologiche in cui sono contenute in nuce intuizioni evoluzionistiche relative ai fenomeni della simbiosi e del mutualismo. Dirigendosi dall'Indo al Gange e avvicinandosi al castello dei Bramani, Apollonio di Tiana attraversa il monte delle scimmie, collocato con geografia fantasiosa nella «parte del Caucaso che scende al Mar Rosso, fitta di selve aromatiche». Qui le scimmie prosperano perché gli Indiani le proteggono dai leoni ricevendo in cambio un servizio prezioso: la raccolta del pepe. Ecco come si svolge questo bellissimo esempio quasi-mitico di collaborazione biologica:

«L'albero del pepe è simile a quello che i Greci chiamano agnocasto, soprattutto nel grappolo del frutto. Esso cresce in luoghi dirupati, dove non possono giungere gli uomini: qui si racconta che viva il popolo delle scimmie, nei recessi dei monti e in ogni loro cavità. Gli Indiani le tengono in gran conto, poiché esse raccolgono il pepe; e le difendono dai leoni con i cani e con le armi. Il leone assalta le scimmie quando è ammalato per averne medicamento, dato che la carne di scimmia arresta la malattia, e quando è vecchio per nutrirsene: poiché non è più in grado di cacciare cervi e cinghiali, divora le scimmie usando a questo scopo della poca forza che gli rimane. D'altronde, la gente del luogo non lo permette; e considerando questi animali alla stregua di benefattori, prende le armi in loro difesa contro i leoni. La raccolta del pepe infatti si svolge così. Gli Indiani vanno agli alberi che sono più in basso, e ne colgono i frutti; poi scavano piccole buche ai piedi degli alberi e vi raccolgono il pepe, quasi gettandolo come se fosse cosa di nessun valore e spregiata dagli uomini. Le scimmie, avendo scorto ciò dall'alto dei loro luoghi inaccessibili, nella notte imitano gli atti degli Indiani: strappano i grappoli dagli alberi e li gettano nelle buche. Al far del giorno gli Indiani si portano via i mucchi delle spezie, che ottengono così senza fatica alcuna, standosene inoperosi e immersi nel sonno» (Vita di Apollonio di Tiana, ed. Adelphi 1978, 6ª ed. 2011, III, 4, pp. 144-145).

L'immagine di quegli Indiani che affrontano i leoni per difendere le scimmie, di cui sfruttano la propensione all'imitazione ottenendo in cambio che esse raccolgano il pepe di notte mentre loro dormono nel riposo del guerriero, è una delle cose più poetiche e commoventi che mi sia mai capitato di incontrare.


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Qui Apollonio, infliggendo ai "Ginni" (i gimnosofisti, ovvero i "sapienti nudi" dell'Etiopia egizia) un lungo e memorabile monologo in cui difende la superiorità spirituale e la priorità temporale dei sapienti indiani rispetto a loro, sembra un lontano maestro di Schopenhauer:


«Quando poi ebbi a incontrarli [i Bramani indiani], al loro messaggio provai la stessa reazione, che secondo la fama ebbero gli Ateniesi di fronte alla sapienza di Eschilo. (...) E tuttavia la soddisfazione che offre un buon spettacolo tragico è ridotta, e causa piacere per una breve parte del giorno, poiché tale è la durata delle feste Dionisie. Invece la filosofia concepita secondo Pitagora e toccata dall'ispirazione divina, come prima di Pitagora vollero gli Indiani, dà una gioia non breve, bensì protratta per un tempo infinito e incalcolabile. (...) Di questa sapienza voi stessi foste tramite a Pitagora al tempo in cui lodavate le dottrine degli Indiani, essendo in origine di stirpe indiana» (VI, 11, p. 272 e p. 273).

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