«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


domenica 25 dicembre 2011

Abissi di saggezza in una manciata di parole


A volte un solo brano di testo può racchiudere e riassumere un abisso di saggezza, cioè secoli di riflessione su un determinato problema esistenziale, morale o scientifico. È un'esperienza familiare ai lettori, e può essere fatta su uno stasimo di Sofocle, su una digressione mitica di Platone, su un commento a margine di Manzoni, su una prudente nota a piè di pagina di Darwin, su un frammento postumo di Nietzsche, su una rapida citazione di Borges, su un aforisma di Cioran, su un esempio di Dennett, e persino su una battuta di Woody Allen. Sono quei casi in cui si ha l'impressione di aver colto qualcosa di decisivo, che arriva come un bagliore accecante e lascia una traccia durevole come una cicatrice, perché è ben noto che l'incremento della consapevolezza porta con sé anche una fitta proporzionale di dolore psicologico, soprattutto se esso provoca delle brucianti disillusioni metafisiche (qui auget scientiam auget et dolorem, ricorda Schopenhauer nel § 56 de Il mondo come volontà e rappresentazione, citando Ecclesiaste 1.18).
Un esempio preciso può essere tratto da una recente opera di cosmologia speculativa. Nel centrale quinto capitolo del loro Il grande disegno. Perché non serve Dio per spiegare l'universo (2010, tr. it. Mondadori 2011), intitolato "La teoria del tutto", Stephen Hawking e Leonard Mlodinow cominciano con una carrellata storica sulle principali leggi della natura e, mentre stanno illustrando l'importanza delle equazioni di Maxwell che descrivono i campi elettromagnetici, fanno una piccola, fulminante osservazione (con annessa chiusura ironica), apparentemente buttata lì per caso. E invece, così mi sembra, si tratta di una summa di filosofia della natura, un pozzo profondo di conoscenza che coinvolge astronomia, fisica e biologia in un passo tanto breve e chiaro quanto decisivo per una retta visione delle cose, perché è come se chiudesse i conti con un modo antico e ostinato di vedere il mondo: intendo il modo che chiamerei "aristotelico", cioè finalistico e ingenuamente geo-antropocentrico, così ben fondato sulle apparenze del quotidiano da essere entrato nel senso comune come un baconiano "idolo della tribù" e da risultare per ciò ancora tanto difficile da rimuovere dalle menti di miliardi di esseri umani. Ed ecco il passo, la cui forza sapienziale eguaglia in valore assoluto quella di una pagina della Fisica di Aristotele, voltandola per sempre:
«Il Sole irraggia a tutte le lunghezze d'onda, ma la sua radiazione ha un massimo di intensità alle lunghezze d'onda che ci sono visibili. Probabilmente non è un caso che le lunghezze d'onda che possiamo vedere ad occhio nudo siano quelle a cui il Sole irraggia con maggiore intensità: è verosimile che i nostri occhi si siano evoluti con la capacità di rilevare la radiazione elettromagnetica in quella gamma proprio perché è la gamma presente in misura più abbondante. Se mai entreremo in contatto con esseri di altri pianeti, questi probabilmente avranno la capacità di "vedere" la radiazione alle lunghezze d'onda, quali che siano, che il loro sole emette con maggiore intensità, modulate da fattori quali le proprietà filtranti della polvere e dei gas presenti nell'atmosfera del loro pianeta. Così alieni evolutisi in presenza di raggi X potrebbero far carriera nel campo della sicurezza aeroportuale» (pp. 87-88).
Quante follie umane di insensato protagonismo religioso e filosofico spazzano via le implicazioni per noi del quadro cosmologico e biologico racchiuso in tali osservazioni? Teniamo presente, però, che l'essere spodestati dalla posizione privilegiata in un cielo di cartone ha come contropartita l'onore immenso di essere davvero gli unici a sapere che la nostra esistenza (e non solo la nostra) non è necessaria e che la nostra costituzione è il risultato di una sintonizzazione alla cieca con i vincoli ambientali che abbiamo trovato. L'illusione di essere stati voluti da un disegno intelligente e superiore, infatti, ci fa sì guadagnare in consolazione ma soprattutto ci fa perdere in valore relativo nel gran mare dell'Essere, perché, tanto per dire, un Dio è per definizione sempre e incomparabilmente più importante di noi. Si comprende allora che, se quella scientifico-darwinista è una retta visione delle cose, ciò che essa ci fa perdere in consolazione illusoria ce lo restituisce con un tasso di interesse altissimo in termini di rivalutazione del nostro posto nell'universo, che risulta essere davvero unico, perché siamo il frutto di una improbabilità estrema e per giunta siamo gli unici ad essere coscienti di questo fatto ed in grado di fornircene una rappresentazione razionale e verosimile. È vero, siamo contingenti e non abbiamo nessuno che lassù ci ami, e tuttavia, per dirla con Italo Calvino e recuperando paradossalmente una nuova forma di antropocentrismo, più smagata e matura, siamo l'occasione forse irripetibile che l'universo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso e conservarne per un po' di tempo la memoria.

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