«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


domenica 25 dicembre 2011

UNA ROSA PER IL GIARDINO DI EPICURO. NOTA SU IL GRANDE DISEGNO DI HAWKING E MLODINOW




I

Quando uscì in originale, nel settembre 2010, The Grand Design di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow attrasse l’attenzione della stampa mondiale quasi esclusivamente per il fatto che in esso è sostenuta la tesi che la scienza è oggi in grado di fornire una spiegazione plausibile dell’origine dell’universo senza ricorrere all’intervento creatore di un qualche benevolo agente divino. Una tesi simile, però, tacitamente condivisa dalla stragrande maggioranza degli scienziati, può risultare  sorprendente solo nel cortile mediatico del villaggio globale, in cui imperversano agenzie oscurantiste come la Chiesa cattolica e la lobby del “Disegno intelligente”, la cui influenza politico-culturale è direttamente proporzionale alle loro risorse economiche e inversamente proporzionale al contenuto informativo delle loro dottrine. Pubblicato in Italia nel marzo 2011 da Mondadori, il libro del sommo cosmologo inglese, che ha tenuto a Cambridge la cattedra che fu di Newton ed è uno dei padri della scoperta dei buchi neri, e del fisico americano del California Institute of Technology, che è un grande divulgatore scientifico ed è stato anche sceneggiatore di alcuni episodi di Star Trek, offre l’occasione per osservarlo da vicino e valutarne la portata scientifica e filosofica.
            Per dare un quadro sintetico dei contenuti de Il grande disegno, basterà abbozzare le risposte che esso propone per le tre domande fondamentali della scienza e della filosofia presentate alla fine del primo capitolo (p. 10) e all’inizio dell’ultimo (p. 162).
1.        Perché c’è qualcosa invece di nulla? Questo problema, intorno al quale il pensiero metafisico occidentale ha elaborato le soluzioni più fantasiose, da Parmenide fino al primo Wittgenstein e ad Heidegger, trova finalmente una soluzione scientifica rigorosa, ancorché congetturale, in un contesto radicalmente fisico. L’universo nel quale ci troviamo è una creazione spontanea, un pasto gratis insieme a un’altra infinità di pasti gratis possibili (non meno di 10500) che una “teoria del tutto” in fase di definizione è in grado di predire matematicamente. La teoria M (dove non è chiaro se “M” stia per “master”, “miracle” o “mystery”) è una costellazione di teorie che combinano la relatività generale e la teoria dei quanti e prevede un multiverso (funzionante secondo le leggi delle “storie alternative” dell’elettrodinamica quantistica di Richard Feynman) in cui innumerevoli bolle di universi con leggi fisiche e destini diversi sorgono spontaneamente e in continuazione per le fluttuazioni quantistiche del vuoto. Né occorre “qualcuno” che avvii il processo accendendo la miccia o dicendo “Fiat lux”, cioè fornendo l’energia necessaria,  poiché  l’energia totale dell’universo è sempre uguale a zero, come prevede la teoria della gravità: l’energia positiva della materia è controbilanciata dall’energia gravitazionale, che è negativa, «e quindi non ci sono restrizioni alla creazione di interi universi» (p. 170).  
2.        Perché esistiamo? Per una serie strabiliante di circostanze verificatesi nel nostro universo, che con il suo pacchetto di leggi fisiche è solo uno dei tanti. Il principio antropico, partendo dal fatto che noi siamo qui a porci la domanda, consente di risalire a ritroso e, con il procedimento top-down, ricostruire la “storia” (nel senso dei diagrammi di Feynman) attraverso cui un insieme di leggi fisiche regolate in maniera altamente specifica ha consentito al nostro universo di produrci in maniera apparentemente finalistica e miracolosa. Una variazione anche minima di alcune leggi, costanti e parametri, con ogni probabilità già in atto in un altro universo, ci escluderebbe. Per esempio, il carbonio e l’ossigeno, basi della vita, possono essere prodotti solo in certe stelle e sotto condizioni precise e altamente improbabili (esattamente quelle descritte dalla fisica nucleare del nostro universo).
3.        Perché questo particolare insieme di leggi e non qualche altro? Questa domanda, che ad alcuni suggerisce interpretazioni in chiave provvidenzialista e creazionista del principio antropico, è svuotata di significato drammatico dalla teoria M, la quale, come detto, predice un numero astronomico di insiemi di leggi, cui corrispondono altrettanti universi. A loro volta, gli insiemi possibili di leggi fisiche sono determinati dal numero di modi in cui possono “avvolgersi” le dimensioni minuscole che formano lo spazio interno o “invisibile”, secondo quanto prevede la cosiddetta teoria "delle corde" o "delle stringhe" (è da questi calcoli che viene fuori il numero 10500). La teoria M ammette undici dimensioni spaziotemporali, tre delle quali sono quelle dello spazio esterno o visibile in cui ci muoviamo, ma è la struttura specifica dello spazio interno, in cui sono avvolte le altre dimensioni, a determinare le leggi “visibili”, cioè i valori delle costanti (per esempio massa e carica dell’elettrone) e la natura delle interazioni tra le particelle, cioè delle leggi delle forze fondamentali. In tal modo, le soluzioni matematiche relative alle modalità di avvolgimento delle dimensioni dello spazio interno danno il corrispondente numero di insiemi di leggi visibili possibili, cui corrispondono altrettanti universi.

Come si vede, seppure in uno stile divulgativo brillante e chiaro (il libro è riccamente e vivacemente illustrato ed è privo di note e di bibliografia), Hawking e Mlodinow offrono un disegno maestoso delle frontiere della conoscenza fisica e cosmologica attuale, e la “teoria del tutto” delineata, se dovesse trovare conferme sperimentali, rappresenterebbe davvero, almeno fino a prova contraria, “un grande trionfo” dell’intelligenza umana, cioè «la splendida conclusione di una ricerca iniziata più di tremila anni fa» (p. 171). Quella ricerca, cioè, che iniziò con i numerosi miti sulla creazione elaborati dalle culture arcaiche, fu resa in qualche modo razionale dalla grande impresa speculativa dei Presocratici, fu rilanciata in chiave matematica e sperimentale da Keplero, Galileo e Newton e fu infine portata ai massimi vertici di precisione predittiva e generalità da Einstein e dai fisici che hanno sviluppato la meccanica quantistica.


II

I lettori di formazione filosofica, però, pur disponendosi a riconoscere il giusto valore del contributo che un tale libro è in grado di apportare alla riflessione speculativa sui massimi sistemi, non possono fare a meno di sottolineare almeno due gravi infortuni in cui incorrono gli autori allorché fanno riferimento alla filosofia e alla sua storia.
Sul primo si è soffermato Umberto Eco nella sua “Bustina di Minerva” dedicata a Il grande disegno (La filosofia non è Star Trek, «L’Espresso», 15 aprile 2011). In apertura del primo capitolo Hawking e Mlodinow scrivono che «la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza» (p. 5). Questa tesi, che Eco definisce “una sciocchezza”, è falsa per varie ragioni (la prima delle quali si trova già  in un  celeberrimo frammento del Protrettico di Aristotele: una tesi del genere potrebbe essere sostenuta solo con argomentazioni filosofiche, e quindi sarebbe falsa per Consequentia mirabilis), e potrebbe al massimo acquistare una qualche plausibilità se restringesse il riferimento del termine generale “filosofia” a qualche precisa classe di scuole filosofiche, essendo vero che, soprattutto tra Otto e Novecento, alcuni filosofi hanno deliberatamente ignorato o sottovalutato i contributi della scienza della natura. Ma nel contempo molta filosofia ha dialogato proficuamente con la scienza: basti pensare al positivismo, al neopositivismo, all’epistemologia popperiana e post-popperiana, alla filosofia analitica, alla filosofia della biologia, della mente, ecc. Non solo, ma Hawking e Mlodinow fanno largo uso dei contributi di certa filosofia del Novecento, in particolare laddove, contro il realismo ingenuo (secondo cui il mondo è esattamente come appare e la scienza corretta ne è la descrizione speculare), dichiarano di assumere un’impostazione più sofisticata che chiamano «realismo dipendente dai modelli», senza mai riconoscere alcun debito, mentre non mancano mai di riconoscerli in campo scientifico (soprattutto nei confronti del saccheggiatissimo  Feynman). Su questo punto, Eco ha perfettamente ragione, perché questa loro teoria del rapporto tra conoscenza e mondo, in base alla quale il nostro cervello produce modelli della realtà rielaborando informazioni sensoriali, sicché non esiste alcun concetto di realtà che sia indipendente dalle descrizioni o dalle teorie assunte come modello e schemi concettuali e teorici differenti possono descrivere in modo soddisfacente gli stessi fenomeni, suona familiare a chi abbia anche solo (buoni) ricordi scolastici della filosofia, e infatti Eco chiama in causa più o meno esplicitamente Berkeley, Kant, Quine e Putnam. Più precisamente, si potrebbe dire che gli autori sembrano oscillare confusamente e allegramente tra il convenzionalismo di Duhem, l'olismo di Quine, il realismo interno di Putnam e la teoria del controllo e della verosimiglianza di Popper (e nessuno di costoro è mai menzionato nel libro), limitandosi in genere a fare i soliti esempi tratti dalla storia della scienza (meccanica classica / meccanica quantistica, sistema aristotelico-tolemaico / sistema copernicano, ecc.) e dalla psicologia e neurofisiologia della percezione. È vero che nell'ultimo capitolo Hawking e Mlodinow esemplificano il loro approccio analizzando in dettaglio il "Gioco della Vita" del matematico John Conway e mostrando come in esso, esattamente come accade nell'universo, le entità descritte (l'ontologia) e le loro interazioni (la fisica) dipendano dal livello di realtà che si è scelto di concettualizzare e modellizzare. Ma questa discussione del "Gioco della Vita", ancora una volta, è filosofia in grande stile, e infatti non è molto dissimile da quella proposta da Daniel Dennett nel § 7.3 de L'idea pericolosa di Darwin (1995) e nel capitolo 2 de L'evoluzione della libertà (2003), guarda caso due capolavori recenti della filosofia che dialoga sul serio con la scienza.
Da questo punto di vista, dunque, il libro è un po' deludente, soprattutto perché esordisce dichiarando la morte della filosofia, mentre il dibattito critico tra le concezioni suddette, peraltro difficilmente sovrapponibili (si pensi solo alle critiche di Popper all'olismo di Duhem-Quine), è uno dei capitoli più esaltanti di quel pensiero filosofico del XX secolo che ha tratto ispirazione dalla scienza e a sua volta ha aiutato la scienza. Ed è appena il caso di osservare che nel 1988, già nel primo capitolo del celebre Dal Big Bang ai buchi neri, Hawking non aveva difficoltà a dichiarare esplicitamente di rifarsi a una concezione della scienza e delle sue teorie desunta dal falsificazionismo popperiano.
            Ma il secondo infortunio è forse ancora più grave del primo e sembra essere sfuggito ad Eco, il quale in fondo non entra mai nei dettagli e nei contenuti scientifici del libro, e si limita piuttosto a citare solo alcuni brevi passi relativi alla morte della filosofia (I, p. 5), al “realismo dipendente dai modelli” (III, p. 39 e p. 40) e al fatto che nel mondo antico era normale attribuire all’intervento di divinità i fenomeni naturali (II, p. 14). Dico subito che ritengo sempre interessante vedere il modo in cui gli anglosassoni si avvicinano agli antichi filosofi della natura e confesso che il loro mirare al sodo mi piace molto: tanto per dire, Talete non è tanto “quello dell’acqua” ma quello che ha predetto un'eclissi (cfr. p. 16), Anassimandro non è solo “quello dell’apeiron” ma anche quello che ha anticipato Darwin (cfr. p. 18), ecc. È ben noto, invece, che la nostra lettura (come dimostrano gli stessi manuali scolastici) è ancora troppo influenzata dello schema hegeliano della storia della filosofia antica, che predilige gli aspetti teoretici relativi alla ricerca del “principio” assoluto. Però in un libro così serio certi svarioni non si possono leggere. A pagina 20 c’è un passaggio su Epicuro che lascia sbalorditi. Dopo aver osservato che i filosofi ionici ebbero poca fortuna nell'antichità perché nei loro sistemi non erano contemplati né il libero arbitrio né l'intervento miracolistico degli dèi nel mondo (ciò che risultava e risulta ancora oggi particolarmente inquietante per molti pensatori), Hawking e Mlodinow introducono e liquidano così il filosofo del giardino: «Epicuro, per esempio, si oppose all'atomismo affermando che è "meglio seguire i miti relativi agli dei che diventare ‘schiavi' del destino dei filosofi naturali"». Possibile che Epicuro abbia detto una sciocchezza del genere? E dove va a finire l'inno alla conoscenza scientifica come strumento di liberazione dalla superstizione contenuto nelle Lettere? Dunque Lucrezio, celebrando Epicuro come liberatore degli uomini dalla superstizione e dedicando il suo intero poema all’atomismo epicureo, ha preso in giro se stesso e pure noi? Lasciando perdere l’assurda affermazione su Epicuro nemico dell'atomismo (nessuno studente passerebbe un esame di filosofia se dicesse una cosa del genere), è più interessante vedere da vicino la questione dei miti. Gli autori non indicano la fonte del passo citato, ma non è difficile trovarlo verso la fine della Lettera a Meneceo. Ebbene, se si va a leggere il contesto si scopre che Hawking e Mlodinow forse non hanno mai sentito parlare di Epicuro e probabilmente citano il passo di seconda mano, prelevandolo chissà da dove. Perché è del tutto evidente che in quel luogo Epicuro sta semplicemente difendendo lo spazio di manovra della libertà dell'uomo, che gli consente di esercitare un po' di bene e di conseguire un po' di felicità (nei limiti di ciò che è in suo potere), contro il culto totalizzante e paralizzante della Necessità imposto da certi filosofi della natura. Sicché, argomenta Epicuro, se avessero ragione costoro, sarebbe meglio darsi alla superstizione, perché questa almeno ci fa vivere nell'illusione di poter agire sulle divinità. Ma i fatalisti e i superstiziosi, per Epicuro, hanno entrambi torto!
Come si vede, non bastava ad Epicuro essere calunniato dai cristiani per 2000 anni (si pensi al decimo canto dell’Inferno di Dante, vv. 13-15: «Suo cimitero da questa parte hanno/ con Epicuro tutt’i suoi seguaci,/ che l'anima col corpo morta fanno»): gli mancavano solo le calunnie involontarie dovute a una citazione maldestra da parte di due scienziati contemporanei.


III

E qui subentra un altro fatto curioso, perché si può osservare che Hawking e Mlodinow hanno perso un’occasione per tributare ad Epicuro un omaggio filosofico-scientifico che il contesto de Il grande disegno giustifica ampiamente. Consideriamo infatti l’importante pagina 132 del libro. Qui Hawking e Mlodinow illustrano la “fortuna per noi” rappresentata dalle irregolarità presenti nel nostro universo primordiale al momento dell’espansione causata dall’inflazione che seguì immediatamente il cosiddetto Big Bang. Nel ventaglio di “storie” possibili, ce n’è soltanto una che presenti un’inflazione priva di irregolarità, in cui cioè l’energia si irradi in maniera uniforme. Ma una storia del genere darebbe vita a un universo “noioso”, perché non porterebbe alla formazione di corpi celesti. Tuttavia, per quanto questa sia la più probabile, molte altre storie con espansione leggermente irregolare avranno una probabilità dello stesso ordine di grandezza della prima. Il nostro universo viene proprio da una di queste storie: grazie a regioni di densità leggermente maggiore rispetto alle altre, la “materia” ha potuto costituire quei grumi a partire dai quali l’attrazione gravitazionale ha dato vita al collasso, ammassando galassie, stelle e infine pianeti. Una prova sperimentale di tutto ciò è costituita dalle variazioni di intensità osservate nella radiazione cosmica di fondo a microonde (RCFM), la cui mappa completa è stata realizzata nel 2010 in forma di immagine elaborata al computer grazie ai dati registrati per sette anni dal satellite WMAP (la bella immagine ellittica proveniente dalla NASA, che rappresenta le fluttuazioni di temperatura della RCFM tramite differenze di colore, è riportata dagli autori nella stessa pagina).
Una delle condizioni preliminari e primordiali per la formazione di un universo abitabile come il nostro, dunque, è un’irregolarità, uno scarto dalla norma prevista dalla teoria del Big Bang, insomma uno squilibrio casuale che interviene nella più probabile uniformità. E qual era una delle innovazioni più importanti apportate da Epicuro al modello atomistico democriteo? In base al nuovo quadro concettuale, in cui entrava in gioco un parametro nuovo come il peso, gli atomi di Epicuro avrebbero dovuto “cadere” nel vuoto infinito seguendo per sempre traiettorie rettilinee e parallele, ciò che avrebbe reso impossibile il contatto e quindi la formazione di aggregati, ovvero mondi e corpi. Ma il filosofo risolse il problema introducendo ad hoc la possibilità di una deviazione casuale e “libera”, cioè uno scarto indeterministico, un deragliamento rispetto alla traiettoria imposta dalle leggi deterministiche di partenza: la famosa parenklisis, che Lucrezio renderà in latino coniando il termine clinamen. Nei termini del modello feynmaniano usato da Hawking e Mlodinow, potremmo dire che nella somma delle "storie" dell'universo epicureo, ce n'è una, attestata sul picco della gamma delle probabilità, in cui gli infiniti atomi si muovono eternamente tutti su traiettorie perfettamente rettilinee e parallele nel vuoto infinito. Ma attorno a questa storia c'è una nube di altre storie in cui qualche atomo devia dalla traiettoria rettilinea e dà vita a quegli scontri che producono aggregati di atomi, cioè universi e mondi potenzialmente abitabili.
Epicuro, quindi, nell’ambito del suo nuovo atomismo, ha introdotto un elemento inedito che anticipa sorprendentemente un punto-chiave della teoria M: la necessità delle fluttuazioni irregolari, delle leggere disomogeneità, per generare universi compatibili con la vita. E allora, con le dovute ricontestualizzazioni, vale anche per lui quello che Hawking e Mlodinow dicono alla fine della pagina 132 rovesciando una celebre battuta di Einstein: «Noi siamo il prodotto delle fluttuazioni quantistiche presenti nell’universo primordiale. Chi fosse religioso potrebbe dire che davvero Dio gioca a dadi».         
(25 aprile 2011)
           



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