«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


lunedì 26 dicembre 2011

Altre inquisizioni. Esercizi di spigolatura antipatica




Tra il 2002 e il 2003, nel forum-cazzeggio della piattaforma Indire per la formazione on line dei docenti immessi in ruolo nel 2001, la mia amica Anna Rita Vizzari propose un gioco folle che consisteva nel segnalare gli errori più diversi (strafalcioni, imprecisioni ecc., quindi non semplici e innocenti refusi) scovati nei libri che andavamo leggendo o che avevamo letto. Scoprimmo così che anche in pubblicazioni di un certo prestigio non mancano sviste curiose e cazzate allucinanti, che spesso sfuggono a una normale lettura. Questi furono i miei contributi.
«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’» (Italo Calvino, chiusa di Perché leggere i classici). 


I. FACENDO LE PULCI AL SIGNORE DEGLI ANELLI


Ovunque si vada (forum, social network, piazza, bar) ci si imbatte quasi sempre in un covo di fanatici tolkeniani e perciò è inutile scrivere una nota celebrativa su Il Signore degli anelli (si tratta di un libro che esercita un fascino difficile da far capire a chi non l’abbia letto). Ritengo invece più interessante fare una cosa più stronza e provocatoria, oltre che sommamente istruttiva: vale a dire, fare le pulci a quest’opera elefantiaca e metterne in luce le incongruenze (o quelle che mi sembrano tali). 
Peraltro, nell’epistolario (The Letters of J.R.R. Tolkien [1981], tr. it. La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi 1990, ried. Bompiani 2001) trovo un interessantissimo accenno da parte dello stesso Tolkien alla difficoltà di evitare errori di vario tipo in un’opera vasta come Il Signore degli anelli. Il 31 ottobre 1948, cioè circa sei anni prima della pubblicazione della trilogia, egli scrive a Hugh Brogan, all’epoca uno studente: «Sono felice di poter annunciare che sono finalmente riuscito a portare a termine con successo Il Signore degli anelli (…). Penso che esista la possibilità che venga pubblicato, anche se è un libro troppo grosso perché l’editore ci guadagni (e men che meno l’autore): arriverà a 1200 pagine. Comunque la lunghezza non è di ostacolo a quelli a cui piace questo genere di cose. Se soltanto il trimestre non mi avesse preso di nuovo alla sprovvista, avrei revisionato il tutto – è sorprendentemente difficile evitare errori e scambi di nomi e tutti quegli sbagli nei particolari in un lavoro lungo, come spesso i critici, che non hanno mai provato a scriverne uno, dimenticano – per mandarlo ad una dattilografa» (Lettera n. 117, p. 151). Naturalmente, per non rientrare nella schiera dei critici di cui parla Tolkien, lo scopo che mi propongo con le mie segnalazioni non è denigratorio, ma conoscitivo: gli esperti tra di voi sono chiamati o ad allungare la lista o a chiarire e smontare le mie perplessità. 


1) Quando è ritornato Bilbo? Ne Lo Hobbit, ed. Bompiani 2000, cap. XIX, p. 366, si dice che Bilbo ritorna alla Contea dal suo famoso primo viaggio il 22 luglio (del 2942 = 1342 C.C.), mentre nel “Prologo” de Il Signore degli anelli si legge: «Ritornò a Casa Baggins il 22 giugno» (p. 39).


2) La freccia di Boromir. A p. 545, Pipino, prigioniero degli Orchetti insieme a Merry, ricorda gli ultimi avvenimenti e ripensa a Boromir che si è immolato per difenderli: «l’ultima immagine che portava incisa nella memoria era Boromir appoggiato a un albero che estraeva una freccia dal suo petto». Ma a p. 909, lo stesso Pipino così racconta a Denethor, padre di Boromir, la morte del figlio: «quando lo vidi per l’ultima volta era accasciato ai piedi di un albero e si strappava un dardo piumato di nero da un fianco». Chiedo lumi a chi ha a portata di mano il testo originale: petto o fianco? Traduzione allegra o lapsus di Tolkien? O pietosa bugia di Pipino a un padre? 

3) Il punto d’incontro tra due fiumi. A p. 967, così Tolkien descrive la partenza da Edoras (capitale del regno di Rohan) del Re Théoden a capo del suo esercito in marcia verso la battaglia finale di Minas Tirith: «Galopparono sempre più avanti nell’ombra. Quella notte si accamparono fra i boschetti di salici ove l’Acquaneve si univa all’Entalluvio, dodici leghe ad est di Edoras». Come certamente saprete, Il Signore degli anelli è accompagnato da una indispensabile cartina geografica dei luoghi in cui si svolge la vicenda, che io ho tenuto sempre aperta davanti a me, segnandoci sopra di tutto (itinerari e nomi di regioni, monti, laghi, fiumi e città in essa non indicati ma menzionati nel testo). Ora, il dato geografico presente nel passo citato è in notevole contrasto con la cartina, perché qui il punto di congiunzione tra l’Acquaneve e l’Entalluvio è situato molto più a nord-est del tracciato della via che collega Edoras a Minas Tirith. Se quest’ultima dista “più di cento leghe” da Edoras (come dice lo stesso Théoden all’hobbit Merry nella pagina precedente), allora, stando alla cartina, usando un righello e facendo una semplice proporzione, si deve dedurre per forza che il punto in cui i due fiumi si incontrano dista non meno di trentacinque leghe da Edoras, e non dodici, come dice il testo. Secondo me l’errore è nella cartina e non nel testo, perché l’esercito ha molta fretta ed è inconcepibile che per dirigersi ad est faccia un così largo giro verso nord-est.


[In effetti, come ho scoperto dopo aver scritto quanto sopra, nella versione aggiornata e corretta della stessa Mappa che Christopher Tolkien ha accluso al volume dei Racconti incompiuti (uscito nel 1980, tr. it. Rusconi 1981, ried. Bompiani 2001), il punto di congiunzione è segnato molto più a sud, in accordo col testo de Il Signore degli anelli (la cui Mappa è anch’essa opera di Christopher). Cfr. anche Racconti incompiuti, Introduzione, pp. 23-25, dove Christopher spiega i motivi dell’aggiornamento della Mappa 25 anni dopo]


4) Pungolo, la spada di Frodo. A pag. 1091, dopo averlo ritrovato e liberato in cima alla Torre di Cirith Ungol, Sam dice a Frodo: «Non hanno preso tutto! Mi avevate prestato Pungolo, ricordate, e la fiala della Dama. Li ho ancora tutti e due». Ad essere pignoli, mentre può ricordare di avergli prestato la fiala lucente di Galadriel (cfr. p. 871: «Tieni, prendi la fiala-stella. Non temere. Reggila in alto e sorveglia»), Frodo non può ricordare di aver prestato a Sam la propria spada, perché quest’ultimo la prese per affrontare Shelob mentre Frodo era privo di sensi, ferito quasi a morte dal mostro (cfr. p. 877). Tant’è vero che Sam, dopo aver messo in fuga Shelob e credendo che il suo padrone fosse morto, gli dice poco dopo tra le lacrime: «Se devo andare avanti… allora, col vostro permesso, ho bisogno di prendervi la spada, signor Frodo» (p. 881). 

5) L’Alberello Bianco di Gondor. A pag. 1159 si racconta del ritrovamento da parte di Aragorn dell’Alberello Bianco sulle nevi del Monte Mindolluin (simbolo della rinascita del reame di Gondor). Ebbene, dal contesto si evince chiaramente che ci troviamo nel mese di maggio del 3019 (cfr. p. 1157: «Passarono così giorni felici, e l’otto di maggio i Cavalieri di Rohan partirono»; «siamo soltanto a maggio…»), e infatti alle pagg. 1159-1160 si dice: «Ed Aragorn piantò il nuovo albero nel cortile presso la fontana, ed esso crebbe rapido e felice; e quando arrivò il mese di giugno era carico di fiori». Più chiaro di così si muore: eppure nella Cronologia dell’Appendice B (p. 1309) è detto che Aragorn trova l’Alberello Bianco il 25 giugno!! 
6) L’Ultima Cavalcata dei Custodi degli Anelli. È il 5 ottobre 3019, il Signore degli Anelli è stato annientato ed Elrond, nel salutare Frodo che sta per lasciare Gran Burrone per ritornare finalmente alla Contea, dice: «Fra un anno circa, verso questa stagione, quando le foglie s’indorano prima di cadere, cerca Bilbo nei boschi della Contea. Io sarò con lui» (p. 1177). In effetti Frodo incontrerà Elrond nei boschi della Contea insieme a Galadriel e Bilbo (p. 1223), e con loro si dirigerà presso i Rifugi Oscuri (dove li attende anche Gandalf) da dove intraprenderanno il viaggio senza ritorno sul mare occidentale, cui i Portatori dell’Anello sono destinati. Il problema però è che tale incontro avverrà DUE anni dopo, e per l’esattezza il 22 settembre 3021 (giorno del 131° compleanno di Bilbo e del 53° compleanno di Frodo), come si desume inequivocabilmente dal testo («arrivò il 1421 [=3021]», p. 1220; «il ventuno settembre [Frodo e Sam] partirono insieme […] e il ventidue settembre, sul calar della sera, giunsero in prossimità dei margini del bosco», p. 1222) e dalla Cronologia dell’Appendice B (p. 1310). La cosa è ben strana perché Elrond, Uomo-Elfo Portatore del più potente dei 3 Anelli Elfici (cfr. p. 1223), Signore di Gran Burrone, Maestro nell’Arte della Guarigione (cfr. p. 284), praticamente immortale, non è certo il tipo da sbagliare una previsione del genere: ora, se non lo sa LUI quando deve partire per l’ultimo viaggio della sua vita, chi lo dovrebbe sapere?

P.S. Qualche altra piccolezza si può trovare confrontando la Cronologia (Appendice B) con gli alberi genealogici (Appendice C). Per esempio, stando alla Cronologia (p. 1302), Sam è nato nel 2983 della Terza Era (= 1383 nel Calendario della Contea), mentre il suo albero genealogico (p. 1317) porta la data 1380 C.C. (cioè 2980 della Terza Era).


II. TRE POEMI LATINI BUR

a. Valerio Flacco, Argonautiche, a cura di Franco Caviglia, Rizzoli 1999
  1. Libro II, v. 645 (parla Cizico, che accoglie gli eroi e presenta loro la regione della Propontide su cui governa): «Nam licet hinc saevas tellus alat horrida gentes». Traduzione: «È vero: c’è, al nostro confine, una regina terribile / che alimenta popoli atroci» (pp. 279 e 281), dove “regina” è un clamoroso refuso per “regione”.

  2. Al verso 433 del libro V Vulcano è nominato tramite l’epiteto “Mulciber”. Caviglia traduce con “Vulcano” ma precisa nella nota ad locum: «Designato nel testo con l’epiteto, già noto alla poesia arcaica latina, di ‘Mulciber’» (p. 496). E che c’è di male? - direte voi. Niente, solo che l’epiteto “Mulciber” era già apparso nel verso 315 del libro II, e anche lì Caviglia aveva tradotto con “Vulcano”… E allora mi domando e dico: questo tipo di note relative alle scelte di traduzione, non si mettono alla prima ricorrenza del termine in questione?

  3. Tra i versi 228 e 229 del libro VI, Castore è indicato solo con l’espressione “novus eques”, per dire che, mentre prima era a piedi in battaglia (siamo già nella Colchide), adesso monta il cavallo di un nemico da lui appena ucciso, di nome Gela (vv. 203-209). Il problema, però, è che questo Gela aveva un fratello, Medore, il quale cerca di scagliarsi su Castore per vendicarsi, ma viene subito trafitto da Falero («Actaei sed eum prior hasta Phaleri /deicit», vv. 217-218). Ecco però come Caviglia spiega l’espressione “novus eques”: «Castore, finora penalizzato dal non poter esercitare la propria attività preferita, ma che ora è riuscito a procurarsi un cavallo da uno dei due fratelli da lui abbattuti» (p. 553).

  4. Al verso 442 del libro VII Minerva è detta “Tritonia virgo”, e Caviglia, che rende con “Pallade”, chiarisce: «Nel testo (…) ‘Tritonia virgo’. Epiteto consueto di Minerva nel linguaggio poetico; deriva dal nome di un lago della Tripolitania, oggi chiamato Lodiah, una delle sedi tradizionalmente indicate come patria della dea» (p. 641). Ben detto, peccato però che Caviglia qui si sia semplicemente dimenticato di una sua precedente nota esplicativa relativa al medesimo termine (questa volta reso con “Minerva”), dove peraltro era stato giustamente più dubbioso sulla spiegazione del misterioso epiteto. Cfr. infatti la nota relativa a II, 49, p. 221: «Nel testo (…) ‘Tritonia’, convenzionale epiteto di Minerva collegato alla sua nascita, ma dal referente non chiarito: un lago dell’Africa, una catena montuosa della Beozia, una sorgente in Arcadia?». Curioso, non trovate?
b. Ovidio, Metamorfosi, traduzione di Giovanna Faranda Villa, note di Rossella Corti, Rizzoli 1994
  1. Inizio del libro X. Orfeo è nell’Ade e prega Plutone di restituirgli Euridice. Fra le altre cose dice di non essere venuto, come Ercole, per rompere le palle sequestrando Cerbero. Per indicare Cerbero, però, Ovidio si serve di una perifrasi e lo chiama “Medusaeum monstrum” (v. 22). La traduttrice se ne esce con “parente di Medusa” (p. 577) (in Fasti 5, 8, lo stesso Ovidio chiama Pegaso “Medusaeus equus”, ma qui è facile capire perché, dato che il cavallo è nato dal sangue di Medusa). La nota ad locum però recita: «Cerbero, il cane infernale, è figlio di Echidna (…) Non ci è noto il rapporto genealogico tra Medusa e Cerbero» (p. 576). Un po’ troppo arrendevole, non trovate? Se la Corti fosse andata a dare un’occhiata alla Teogonia di Esiodo (vv. 270 ss.) avrebbe trovato non dico la risposta, ma qualcosa che si avvicina molto: qui infatti si scopre che Echidna era figlia di Ceto e Forco, come le Gorgoni. Quindi Medusa è zia di Cerbero, e come rapporto genealogico non è poco, anche se non è il massimo.

  2. Libro XIII. Siamo nel pieno del bellissimo discorso in cui Aiace spiega perché le armi di Achille dovrebbero toccare a lui, e non a quel fetentone di Ulisse. A un certo punto l’eroe ricorda alcune imprese di Ulisse, sottolineando che sono state tutte compiute con l’aiuto determinante di Diomede, e fra queste include naturalmente l’incursione nell’accampamento di Reso (v. 98), episodio cui è dedicato, come tutti sanno, l’intero libro X dell’Iliade. Nota ad locum: «Durante una sortita notturna nel campo troiano, Ulisse e l’amico Diomede uccisero Reso e gli rubarono i famosi cavalli; poi intercettarono Dolone, una spia dei Troiani ecc.». ALT!! Nel racconto pseudo-omerico (cui pure la Corti rimanda) la cattura e l’uccisione di Dolone precedeono l’incursione nel campo troiano e la strage di Reso e di 12 dei suoi uomini.
c. Stazio, Tebaide, traduzione e note di Giovanna Faranda Villa, Rizzoli 1998
  1. Libro VII, Giove sta spiegando a Bacco perché la guerra fra Tebani e Argivi è inevitabile, e dice: «Labdacios vero Pelopisque a stirpe nepotes / tardum abolere mihi» (vv. 207-208). Traduzione della Faranda Villa: «Ma i nipoti di Labdaco, discendenti di Pelope, da tempo avrei dovuto distruggerli» (p. 475). Mi chiedo: errore di stampa (“e i” dopo Labdaco, invece della virgola) o grave svista della traduttrice? Infatti “discendenti di Pelope” non può essere un’ulteriore connotazione dei Tebani, perché si riferisce ovviamente agli Argivi (detti “gentes Pelopis”, cioè peloponnesiaci, appena 40 versi più avanti).

  2. Libro X, descrizione della “Virtus” (vv. 632 ss). La traduttrice segnala in nota (p. 704) che il passo è naturalmente intessuto di richiami virgiliani. Per esempio, «il v. 638 [«iamque premit terras, nec vultus ab aethere longe»] ricorda da vicino quello di Virgilio (Aen. X, 767) in cui si parla della Fama: “ingrediturque solo et caput inter nubila condit”». Ma davvero? In Aen. X, 767 si parla del “magnus” Orione (ivi, v. 763, che in VII, 256 per Stazio diventa “altus”), cui è paragonato Mezenzio mentre entra in campo armato di una “ingens asta” (ivi, v. 762). È però vero che un identico verso è riferito da Virgilio alla Fama, ma, ahimè, siamo in IV, 177!



III. ALTRE INQUISIZIONI


a. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, traduzione e note di Augusto Frassineti, Rizzoli 1984
  1. Nel X capitolo del terzo libro ricorrono parecchie citazioni dall’Iliade e dall’Eneide, visto che Pantagruele si serve di vaticini omerici e virgiliani per far capire a Panurgo quanto sia difficile dare consigli sul matrimonio. Ebbene, i versi di Iliade VIII, 102-103, nella nota di Frassineti diventano “VIII, 303” (p. 645).

  2. Sempre terzo libro, ma capitolo XXXII. Rabelais cita l’espressione proverbiale “bilancia di Critolao” (p. 797). Frassineti chiarisce in nota: «Critolao, filosofo aristotelico del II secolo d. C. ecc.». ALT! Critolao è vissuto nel II secolo AVANTI Cristo. È noto per aver preso parte con Carneade e Diogene di Babilonia alla famosa ambasceria a Roma nel 155 a. C. per ottenere il condono di una multa. Per tacere del fatto che l’aneddoto della bilancia ci è riferito da Cicerone (Tusc. V, 17, 51).

  3. Quinto libro, capitolo II. Si parla dei Siticini, gli abitanti dell’isola Sonante trasformati in uccelli. A un certo punto si legge: «avevano il collo torto, le zampe pelose, artigli e ventre d’Arpie, culo da Stimfalidi». Solo alla parola “Stimfalidi” Frassineti interviene con una nota che dovrebbe chiarire tutto, ed è questa: «Uccelli orribilmente diarroici (Eneide, VIII, 214)». E ti saluto e sono – direbbe Camilleri. Ma andando a dare un’occhiata più da vicino alle fonti, si vede che la nota è non solo generica ma disastrosamente imprecisa. Intanto andava riferita alle Arpie, cui Virgilio (in III, 216-217 e non in VIII, 214!!) attribuisce una puzzolentissima diarrea («foedissima ventris / proluvies»): da qui il rabelaisiano “ventre di Arpie”. Gli Stimfalidi, invece, sono gli uccelli sterminati da Ercole nella VI fatica (da qui la ricorrenza del suo nome subito dopo il passo citato), e il riferimento al loro culo è dovuto probabilmente al fatto che, secondo alcuni mitografi, tali uccelli cacavano escrementi così velenosi da bruciare le messi.
b. Roberto Cotroneo, Eco: due o tre cose che so di lui, Bompiani 2001
  1. A p. 23 c’è la citazione di un brano che si trova tra le pp. 35 e 36 di Baudolino e che a un certo punto dice: «gli ho detto che a me san Baudolino aveva detto che lui avrebbe conquistato Terdona, così loro si convincevano che…» ALT! Dopo “Terdona” ci volevano i puntini di sospensione tra parentesi, perché Cotroneo salta una frase. L’errore è grave perché il “loro” che viene subito dopo si riferisce ai messi di Terdona, che compaiono appunto nella frase saltata. Inoltre l’originale porta “San” e non “san”.

  2. Ovvero 1. bis. A p. 73 Cotroneo torna a citare una parte dello stesso brano, e stavolta la nostra frase compare così: “gli ho detto che a me San Baudolino aveva detto che lui avrebbe conquistato Terdona, (…) così loro si convincevano che…». Questa volta compaiono il corretto “San” e la “(…)”, ma resta quel “loro” che si riferisce ai messi di Terdona che compaiono nella frase cancellata. Ma che gli costava a Cotroneo lasciare la frase “e soprattutto ai messi di Terdona”? Che disturbo gli dava?

  3. A p. 32 Cotroneo così introduce la citazione di un passo della p. 502 de Il nome della rosa: «E in una delle pagine finali il giovane monaco scrive». Ma Gesù mio, lo sanno anche i bambini che quando Adso scrive è «un vecchio monaco, alle soglie della morte», come egli stesso si autodefinisce a p. 503!

  4. P. 60, citazione da L’isola del giorno prima, p. 473: «Né sfuggirei alla puerile curiosità del lettore, il quale vorrebbe sapere se davvero Roberto ha scritto le pagine su cui mi sono intrattenuto sin troppo. Onestamente, dovrei rispondergli che non è possibile che le abbia scritte qualcun altro, che voleva solo far finta di raccontar la verità». Né sfuggirei alla puerile curiosità del lettore, il quale vorrebbe sapere cosa c’è di male in questo passo su cui mi sono intrattenuto sin troppo. Onestamente, dovrei rispondergli che “non è possibile” non è possibile, e infatti nell’originale si legge “non è impossibile”.

  5. P. 83: «la scommessa di Roberto [il protagonista de L’isola del giorno prima] non è ritornare a un passato che non torna, o meglio a un ‘tempo ritrovato’, non è quel finale nostalgico e melanconico è un conto aperto». Secondo voi cosa voleva dire?

  6. P. 87, citazione da L’isola del giorno prima, p. 470: «E così, se anche una delle mie ipotesi si prestasse a continuar la narrazione, questo non avrebbe certo una fine degna d’esser narrata». Nell’originale “questo” è ovviamente “questa”.

  7. P. 101: «Scrive Eco, nelle Sei passeggiate nel bosco narrativo: ‘talora speriamo di far coincidere la nostra storia personale con quella dell’universo’». E bravo Cotroneo, un errore e una leggerezza che manco il più scarso scopiazzatore di tesi di laurea commetterebbe! Intanto l’opera si intitola Sei passeggiate nei boschi narrativi, e questo è l’errore; e poi: ma il lettore non ce l’ha il diritto a una nota che dica dove diavolo si trova il passo esattamente? Beh, ve lo dico io: a p. 173 (edizione Bompiani del 1995).
c. Imre Lakatos – Paul K. Feyerabend, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo, a cura di Matteo Motterlini, prefazione di Giulio Giorello, Raffaello Cortina Editore 1995 (si tratta della raccolta di alcuni inediti dei due famosi epistemologi post-popperiani, e in particolare della prima pubblicazione di gran parte della loro corrispondenza)
  1. Nella prima delle sue otto “Lezioni sul metodo” (tenute nel gennaio-marzo 1973 alla London School of Economics), Lakatos si avventura nella citazione della citazione di due passi di Hegel da parte di Popper, e dice: «Tanto per dare un’idea di quello che Popper e i suoi colleghi del Circolo di Vienna combattevano, ecco due citazioni da Hegel, che magari sono importanti, in quanto potrebbero riferirsi, per esempio, alla teoria dei colori di Newton. La ‘filosofia della natura’ di Hegel era considerata vera e propria scienza. Popper nella sua Società aperta, vol. II, p. 290 [tr. it. p. 400, nota 4] cita la definizione di Hegel del colore: “il colore è il ricostituirsi della materia ecc. ecc.» (p. 30). Ora, qui ci sono cose che fanno “accapponare i capelli”, come direbbero quelli di Striscia la notizia. Intanto si noti che la parentesi quadra “[tr. it. p. 400, nota 4]” è di Motterlini, che è anche il traduttore. Si presume, quindi, che egli sia andato a controllare, se non proprio il passo di Hegel (sul quale non fornisce estremi bibliografici), almeno il passo di Popper (visto che cita bene la tr. it. de La società aperta e i suoi nemici), e allora bisogna concludere che sia Lakatos nel 1973 che lui nel 1995 erano affetti da allucinazioni. Infatti, il passo di Hegel (che si trova nel § 303 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) parla del “calore” (Die Wärme), e non del “colore”, e la cosa incredibile è che nel luogo di Popper esso è citato del tutto correttamente!

  2. Ma diamo uno sguardo anche alla “Prefazione” al volume, scritta da Giulio Giorello (grande conoscitore di Popper, Lakatos e Feyerabend). A p. XI egli scrive: «Non era forse Popper che nel lontano 1956 soleva iniziare le proprie lezioni sul metodo scientifico “dicendo agli studenti che il metodo scientifico non esiste”?». E la nota recita: «Popper (1956/1983), p. 35; cfr. anche Feyerabend (1994), p. 102». Ora, il fatto è che la data “1956” è sbagliata, perché Popper diceva quella cosa nel 1952. Tale data, fra l’altro, ricorre nel corso dello stesso volume in una lettera di Feyerabend (p. 294), e Giorello avrebbe dovuto dirlo. Essa, inoltre, è facilmente deducibile da Feyerabend (1994), p. 102 (cioè la sua autobiografia Ammazzando il tempo, edita da Laterza), cui lo stesso Giorello rimanda in nota. Io sono propenso a credere che, a meno che non si tratti di semplice errore di stampa, Giorello sia vittima di un lapsus calami dovuto forse al fatto che in Popper (1956/1983), cioè il primo volume del Poscritto alla Logica della scoperta scientifica (Il Saggiatore 1984), il passo da lui citato ricorre nel primo capoverso della “Prefazione 1956”.
d. Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Adelphi 2000
    Dulcis in fundo, visto che queste sono “altre inquisizioni” e che ho parlato anche di Rabelais, vediamo come in Altre inquisizioni Borges cita Rabelais. Nel secondo saggio, “La sfera di Pascal”, Borges traccia la storia della metafora (di origine ermetica) secondo cui Dio è una sfera intelligibile, il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, per mostrare i diversi usi che di essa sono stati fatti fino a Bruno e Pascal. Tra gli autori che ne hanno fatto menzione egli cita appunto Rabelais e dice: «nel XVI [secolo], l’ultimo capitolo dell’ultimo libro di Pantagruel alluse a “quella sfera intellettuale, il cui centro sta dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, che chiamiamo Dio”» (p. 16). Il mio adorato Borges è il maestro delle citazioni bibliografiche inventate, ma devo dire che con quelle vere a volte non ci sa fare. Infatti, molto prima che nel capitolo quarantasettesimo, l’ultimo, del quinto e ultimo libro del Gargantua e Pantagruele, Rabelais aveva citato la metafora nel capitolo tredicesimo del terzo libro in un passo quasi identico, che però contiene un esplicito riferimento parentetico al fatto che essa è dovuta ad Ermete Trismegisto (ed. cit., p. 661). Questo vuol dire che se Borges avesse avuto presente il primo passo avrebbe dovuto citarlo per 2 buoni motivi: 1) perché viene prima e 2) perché solo in esso compare il riferimento ad Ermete Trismegisto, il cui nome è centrale nella sua “inquisizione”.

2 commenti:

  1. Carissimo Marco, quanto fu divertente quella discussione nel forum! Grazie.

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  2. Da morire dal ridere. Tempi mitici ormai! :-)

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