«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


lunedì 26 dicembre 2011

Dracula, le TIC e Facebook. Nota semiseria.





In cui si dimostra che Facebook è il Vampiro e che noi tutti siamo un po' come Mina Murray in Harker

1.
Questa non è una recensione del Dracula di Bram Stoker (1897), ma una sua reinterpretazione, tra il serio e il faceto, in chiave-Facebook. Certo, si tratta dell’ennesima interpretazione di un’opera che nel suo secolo e passa di vita ne ha conosciute fin troppe: politiche, filosofiche, religiose, psicoanalitiche, antropologiche, ecc. Qualche anno fa Alessandro Baricco, partendo da un confronto con la figura di Don Giovanni, è arrivato ad identificare Dracula con la stessa forza erotica cieca e istintiva che muove il mondo, facendone qualcosa che starebbe a metà strada tra la “Volontà” di Schopenhauer e la libido di Freud (cfr. “La Repubblica” del 6/7/03, ora disponibile qui). Come si vedrà, al cospetto di una siffatta lettura, seria e apparentemente fondata, la mia, semiseria e apparentemente paradossale, brilla per rigore filologico.
Non è mia intenzione entrare nella fabula del romanzo, peraltro notissima. Mi interessa invece rileggere l’opera puntando soprattutto l’attenzione sulla sua costruzione narrativa, che per l’epoca era sicuramente insolita (oggi Camilleri usa spesso la stessa tecnica, e in modo particolare ne La scomparsa di Patò).
Dracula è il risultato di un montaggio di ‘pezzi’ diversi: lettere, diari (compreso uno “di bordo”), articoli di giornale, memorie e telegrammi, scritti in grandissima parte dagli stessi protagonisti della vicenda (Jonathan Harker, Mina Murray, Lucy Westenra, il dottor Seward e il dottor Van Helsing). Il tutto, dopo essere stato trascritto a macchina quasi per intero da Mina durante lo svolgersi della vicenda, è da lei (e dal marito) assemblato e ordinato cronologicamente sette anni dopo per serbare la memoria dei terribili fatti accaduti nel corso della loro lotta contro il vampiro. Mina, che trascrive a macchina una gran quantità di materiale disparato di cui non esistono più gli originali (molti dei quali sono stati dati alle fiamme dallo stesso Dracula: cfr. cap. XXI: 355 [ediz. de “La biblioteca di Repubblica”, febbraio 2004]), diventa così la vera ‘narratrice’ nascosta di un romanzo che prima facie ha tanti narratori quanti sono gli autori dei ‘pezzi’ soggetti alla sua opera di montaggio. In questo modo Stoker crea una serie di diaframmi tra sé e la vicenda narrata: l’autore inventa un autore modello che a sua volta inventa un narratore modello, il quale mette ordine a un materiale narrativo molto disparato, da lui stesso trascritto a partire dagli originali (andati perduti) e prodotto quasi tutto dai personaggi principali, uno dei quali è il narratore stesso.
La cosa però che a me sembra più interessante, e che costituisce la ragione di questa mia nota assolutamente folle, è il fatto che Mina, nel corso della vicenda, passa attraverso la scoperta e l’uso dei nuovi mezzi di espressione e di comunicazione, che per l’Inghilterra della fine dell’Ottocento equivalgono alle nostre TIC (tecnologie informatiche e comunicative). Sin dalla sua prima lettera all’amica Lucy, infatti, Mina dichiara non solo che sta impratichendosi con la dattilografia, ma che intende apprendere anche la stenografia, sia per essere utile al futuro marito Jonathan nel suo lavoro di procuratore sia soprattutto per tenere, come già fa lui, un diario stenografato e per ciò stesso più dettagliato possibile (cfr. inizio del cap. V: 67). Nel corso del romanzo, poi, Mina scopre altri due strumenti importantissimi e per l’epoca rivoluzionari: il fonografo, usato dal dottor Seward per la registrazione dei suoi diari (cfr. cap. XVII: 275), e la macchina da scrivere portatile, fornitale dall’amico texano Quincey Morris, grazie alla quale può continuare la stesura e la trascrizione dei diari anche durante la caccia finale a Dracula lungo la Transilvania (cfr. cap. XXVI: 436). Negli ultimi due casi, inoltre, questa scoperta è accompagnata da entusiasmo e riconoscenza per le opportunità offerte dai nuovi strumenti tecnologici di scrittura e registrazione, perché Mina ha ben chiara la loro funzionalità al proprio scopo, che è quello di raccogliere nel modo più rapido ed esauriente possibile tutto il materiale disponibile intorno alla vicenda che lei e gli altri stanno vivendo, al fine anche di avere a disposizione una banca-dati la cui rapida consultazione nei momenti opportuni può rivelarsi utilissima per l’azione. E difatti si rivelerà tale, perché a un certo punto, verso la fine, rileggendo il dattiloscritto del diario iniziale di Jonathan, Van Helsing scopre in un passo apparentemente innocuo nientemeno che la stessa logica, empirica ed infantilmente induttiva, con cui procede la mente criminale di Dracula (cfr. cap. XXV: 425-428)
In questo modo, Dracula è anche un romanzo in cui la tecnica narrativa di cui si è detto è strettamente legata alla disponibilità di strumenti tecnologici nuovi che favoriscono la rapidità e l’efficacia dell’espressione e della comunicazione. Non è azzardato, allora, sostenere che la stenografia, il fonografo e la macchina da scrivere portatile stanno alla costruzione di Dracula negli anni Novanta dell’Ottocento come il Word Processor sta alla costruzione de Il pendolo di Foucault negli anni Ottanta del Novecento. Qui, infatti, Belbo esiste quasi solo attraverso i suoi files di Word, realizzati con l’entusiasmo del neofita che scopre un nuovo strumento di scrittura dalle rivoluzionarie potenzialità combinatorie. Memorabile, a tal proposito, è l’inizio del primo file letto da Casaubon nel terzo capitolo, dove Belbo si lancia in una serie folle di citazioni tratte da Eco stesso (che a sua volta, nei due incipit de Il nome della rosa, citava il vangelo di Giovanni e scimmiottava Snoopy e l’attacco del quarto capitolo del Frankenstein di Mary Shelley, peraltro una delle fonti di Stoker), da Omero, da Ariosto, da Derrida, da Joyce e da Dante: «O che bella mattina di fine novembre, in principio era il verbo, cantami o diva del pelide Achille le donne i cavalier l’arme gli amori. Punto e va a capo da solo. Prova prova prova parakalò parakalò, con il programma giusto fai anche gli anagrammi (…). Oh gioia, oh vertigine della differanza, oh mio lettore/scrittore ideale affetto da un’ideale insomnia, oh veglia di finnegan, oh animale grazioso e benigno. Non aiuta te a pensare, ma aiuta te a pensare per lui. Una macchina totalmente spirituale…».

2.
Il richiamo di Umberto Eco renderebbe facile collegare questa prospettiva di lettura del romanzo all’era del computer, ovvero alle TIC e ad Internet, nonché ipotizzare subito un legame tra il Vampiro e la realtà virtuale, ovvero, più precisamente, sostenere la possibilità di una descrizione ‘vampiresca’ della situazione di chi, come noi ad esempio, interagisce in un social network esistendo in esso solo come ‘umore’ espressivo (post, gif, foto, link, test, gruppi, ecc...) succhiato dallo spazio virtuale e confinato in una dimensione né pienamente reale (tutto è molto labile e precario e può ‘spegnersi’ da un momento all’altro) né pienamente irreale (tutto è lì, visibile e disponibile). Analogamente, nel romanzo i personaggi esistono solo nella misura in cui raccontano coralmente e ognuno dalla propria prospettiva la loro esperienza del Vampiro, che in tal modo, pur con la sua figura labile, sfuggente, cangiante e perturbante, diventa condizione di possibilità per la loro stessa esistenza letteraria (nelle sue vene, anche attraverso Lucy, che necessita di continue trasfusioni prima di morire, finisce infatti per circolare il sangue, l’‘umore’ vitale di tutti, escluso Jonathan, che così potrà trovare la forza e il coraggio di sgozzarlo).
Ma a questo io vorrei arrivare partendo da più lontano, e cioè dal 1915, anno in cui Pirandello pubblica il romanzo Si gira (poi riedito nel 1925 col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore), che già nelle prime pagine si pone come una sorta di manifesto filosofico-sociologico di quella corrente di pensiero che vede nella ‘macchina’ in generale, e in quella da presa in particolare, quasi il simbolo tangibile del carattere vampiresco della tecnica nei confronti degli uomini. La macchina da presa, infatti, è vista dall’operatore Serafino come un marchingegno infernale che succhia l’anima e il corpo degli attori per restituirli nella forma spettrale e alienata delle immagini cinematografiche. In questa prospettiva, Dracula è il Cinema, perché, così come in Dracula gli uomini ‘vivono’ sospesi tra la vita e la morte (sono dei morti-non morti, ovvero dei vivi non-vivi), e in questa condizione ottengono il premio di una pallida e seducente forma di immortalità, nel cinema gli attori ‘vivono’ come pallidi simulacri animati, ancorché ‘immortali’ e riproducibili in serie. Ma c'è di più, perché da questo punto divista occorre aggiungere che il vampirismo del Cinema è duplice, dal momento che esso per sua natura 'succhia' parassitariamente l'anima anche al mondo, e a quello della cultura letteraria in particolare. Non è un caso, infatti, che negli stessi anni (1922) il cinema muto dia una delle prove migliori di sé nella vampirizzazione dello stesso vampiro letterario col Nosferatu di Murnau, nelle cui immagini scarne, pallide ed essenziali il volto, la vita e la storia di Dracula sono trasformati in simulacri e codificati in un archetipo semplificato che influenzerà tutte le trasposizioni cinematografiche successive. Di tutto questo Francis Ford Coppola era così consapevole che nel suo Dracula di Bram Stoker (1992), giocando sulle date (l’anno ufficiale della nascita del ‘cinema’ è il 1895 e il romanzo è del 1897, anche se, bisogna dire, racconta fatti accaduti sette anni prima), inserirà una sequenza metalinguistica inventata in cui il Vampiro porta Mina al cinematografo e lì, con le immagini dei fratelli Lumière e di Méliès sullo sfondo, tenta per la prima volta di mordere al collo la ragazza, ormai quasi totalmente sedotta dal suo fascino…
Ma per ricavare finalmente l’equazione Dracula = realtà virtuale da quella che identifica Dracula con il Cinema bisogna aspettare il 1999, l’anno del primo Matrix. Noterò di passaggio che qualche critico cinematografico ha sostenuto che Matrix non è altro che il Cinema, e questo aiuterebbe molto la mia ipotesi, anche se non è decisivo, perché basta semplicemente guardare la fabula del film, senza troppe speculazioni esegetiche, per rendersi conto che Matrix, coltivando corpi umani come pile da cui ‘succhiare’ l’energia indispensabile al proprio funzionamento e sostentamento, realizza in grande stile il sogno di Dracula di avere a disposizione una quantità illimitata di corpi cui succhiare il sangue e ‘vivere’ così per sempre la propria vita di non-morto («Il sangue è la vita! Il sangue è la vita!» grida in manicomio il pazzo zoofago Renfield, devoto del Padrone Dracula: cfr. cap. XI:179). Il vampirismo di Matrix, come si vede, è così esplicito che l’equazione Dracula = realtà virtuale ne discende immediatamente.

3.
Siamo arrivati così allo stesso risultato sia percorrendo la strada letteraria del nesso tra tecnica narrativa da un lato e tecnica di scrittura e codificazione della memoria e del sapere dall’altro (dal fonografo e dalla macchina da scrivere portatile scoperti da Mina al processore Word di Belbo, con tutto quel che ne conseguirà in termini di TIC), sia percorrendo la strada cinematografica del nesso tra il Cinema e il vampirismo. In entrambi i casi la realtà virtuale, e a fortiori la sua provincia dia-icono-logica costituita da un social network, si configura come l’ultima metamorfosi di Dracula. Sfogliare le pagine di un social network come quello di cui abbiamo esperienza noi è spesso come sfogliare il romanzo di Stoker. E l’analogia non si esaurisce solo nel fatto che anche un social network è una storia scritta a più mani che ossessivamente ritorna a interrogarsi metalinguisticamente sul medium in cui essa sussiste e prende corpo (questo mio pseudo-saggio delirante e ipnotico ne è una prova paradigmatica…). L’analogia riguarda anche la funzione di ‘redattrice’ svolta da Mina nel romanzo, nonché il suo privilegio, derivante dal fatto che lei è l’unica ad aver bevuto il sangue del Vampiro, di poterne scrutare telepaticamente i pensieri e le percezioni. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è innegabile che il nostro commercio con le TIC ci rende privilegiati rispetto a quelli che non hanno alcuna dimestichezza con esse. Il nostro averle vampirizzate ci ha indubbiamente migliorati nella nostra percezione della realtà complessa che ci circonda, e senza dubbio questo nostro entrare nella storia come appartenenti alla prima generazione di "abitanti" di un social network è il ritorno più vantaggioso, per il nostro Ego, del patto che abbiamo stretto col diavolo.
Pensate a un utente di Facebook che si dovesse assumere il compito di raccogliere in volume la ‘storia’ dei primi social network. Ebbene, costui ricoprirebbe esattamente lo stesso ruolo che nel romanzo, come abbiamo visto, è svolto da Mina: racconterebbe una storia mentre la sta vivendo e ne assemblerebbe i pezzi strada facendo con l’intento specifico di preservarne la memoria (anche adesso molti amano salvare e ordinare materiali che ritengono degni di essere ricordati).
Ma di cosa parlerebbe questa storia? Chi ne sarebbe il protagonista assoluto, il liquido amniotico, la placenta, la fonte di vita, e insieme il terreno nero e riarso, la bara, la fonte di morte? Facebook, il Dracula cui anche noi ci siamo votati, l’entità perturbante che ci sottrae tempo, vita ed energie mentali per nutrirsene e autoriprodursi di volta in volta, lasciandoci una sete inestinguibile. E quante volte, avvertendone la minaccia, abbiamo cercato di ucciderlo? Eppure, come Mina, anche noi ne siamo misteriosamente attratti, perché nel modo in cui esso rende visibile e condivisibile la nostra vita, il nostro ‘umore’ e i nostri pensieri, per quanto pallido, fantasmagorico, precario e ‘virtuale’ esso possa apparire (e di fatto lo è), noi siamo portati a vedere come una promessa di oggettività e di atemporalità che le nostre esistenze empiriche, prigioniere della soggettività individuale e dell’inesorabile scorrere del tempo, non potranno mai darci.
Lo aveva già capito perfettamente Franz Kafka (e come stupirsene?), il quale, nello stesso anno dell'uscita di Nosferatu, in una delle sue ultime lettere a Milena scrive una cosa che lascia sbigottiti per l'incredibile analogia con tutto ciò che siamo venuti dicendo fin qui e che non a caso è stata sottolineata con forza dal filosofo Maurizio Ferraris a conclusione del suo inquietante Dove sei? Ontologia del telefonino (Bompiani 2005), in cui si delinea la fondazione di un testualismo debole per cui il regno ontologico degli oggetti sociali è costruito sulla base di iscrizioni sempre più digitalizzate: «Come sarà nata mai l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro attraverso le lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può affrontare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane. Scrivere lettere però significa denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi durante il tragitto. Con così abbondante alimento questi si moltiplicano in modo inaudito. L’umanità li sente e li combatte; per cercar di eliminare l’azione dei fantasmi tra uomo e uomo e per raggiungere il contatto naturale, la pace delle anime, essa ha inventato la ferrovia, l’automobile, l’aeroplano, ma ciò non serve più, sono evidentemente invenzioni fatte già durante il crollo; la parte avversaria è molto più calma e forte, anche se l’umanità dopo la posta ha inventato il telegrafo, il telefono, il telegrafo senza fili. Gli spiriti non moriranno di fame, ma noi periremo» (Franz Kafka, Lettere a Milena, Mondadori 1980, p. 227).
Tout se tient, come si vede, ovvero, per tornare ad alludere con Eco al Finnegans Wake ed abusare un'ultima volta dell'ideale insonnia del lettore modello, Here Comes Everybody

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