«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


lunedì 26 dicembre 2011

Lo spirito sociologico di Calvino






Nota su Italo Calvino. La realtà dell'immaginazione e le ambivalenze del moderno di Elena Gremigni



Nel suo Diario americano 1960, uscito tra il novembre del 1961 e il febbraio del 1962 sui numeri 53 e 54 di «Nuovi Argomenti», Italo Calvino inserì una breve sezione intitolata "La sociologia e il calderone", che recita così: «M'accorgo che più sto qui e più ogni discorso generale diventa difficile. Giro, osservo, ascolto, scrivo, e sento sempre di più l'insoddisfazione di chi azzarda approssimazioni su approssimazioni... Ormai, non resta che dare la parola ai sociologi, ai freddi raccoglitori di dati. Basta un breve soggiorno in America per rendersi conto del perché questo è il paese delle inchieste sociologiche, dei sondaggi Doxa, delle ricerche di mercato. Nessuna forma di conoscenza e di previsione pare possibile, di fronte a un mondo umano così cangiante, se non basata su una dettagliata accumulazione di dati, su scandagli statistici minuziosi, sempre più minuziosi, fino ad annegare in un mare di cifre e risposte e notizie che non si possono più mettere insieme, che non significano più nulla...».
È con un rinvio a questo passo che Elena Gremigni, docente livornese di Storia e Filosofia nei licei e di Sociologia dei Beni culturali all'Università di Pisa, apre l'introduzione del suo agile e rigoroso saggio Italo Calvino. La realtà dell'immaginazione e le ambivalenze del moderno (Le Lettere, Firenze, marzo 2011, 120 pp.). Poiché il saggio mira a illustrare l'"autentico spirito sociologico" (p. 98) che informa l'opera del grande scrittore e intellettuale italiano, ci si potrebbe chiedere come sia possibile una simile operazione esegetica, dato che, come visto, Calvino sembrava nutrire delle perplessità epistemologiche di fondo sui metodi d'indagine della sociologia empirica. L'analisi di Elena Gremigni risponde a questa domanda sviluppando le implicazioni ermeneutiche di due dati di fondo, costituiti 1) dal fatto che nella sua opera, tanto in quella saggistica quanto in quella letteraria, Calvino si sia dimostrato un acuto osservatore delle strutture e delle dinamiche sociali dell'Occidente del secondo dopoguerra in generale e dell'Italia dell'ambiguo boom economico in particolare; e 2) dal fatto che uno dei più influenti sociologi contemporanei, Zygmunt Bauman, abbia più volte riconosciuto un debito intellettuale enorme nei confronti di Calvino, al punto da dichiarare, in un'intervista apparsa il 13 ottobre 2002 sul «Corriere della sera» e intitolata significativamente "Bauman: devo tutto a Gramsci e Calvino": «Italo Calvino (...) è il più grande filosofo tra i narratori e il maggior narratore tra i filosofi. Il suo Le città invisibili è il miglior testo di sociologia mai scritto». Sulla base di queste premesse, Elena Gremigni può così sintetizzare nella conclusione lo schema interpretativo seguito nella sua originale ricognizione critica: «Le interviste, gli articoli e i saggi scritti da Calvino rendono esplicita la sua attenzione nei confronti della società e delle dinamiche che la caratterizzano, ma soprattutto consentono di effettuare in modo non arbitrario un secondo livello di lettura in chiave sociologica dei suoi testi narrativi» (p. 102).
Questa ipotesi esegetica spiega la stessa articolazione del saggio, che, delimitato da una introduzione e una conclusione sintetiche e particolarmente chiare ed efficaci, si compone di tre capitoli, ciascuno dei quali è suddiviso a sua volta in tre paragrafi, ciò che conferisce eleganza ed equilibrio al movimento rapido e preciso dell'analisi e dell'argomentazione.
Nel primo capitolo, "Dalla prassi alla teoria", Elena Gremigni mostra come l'esperienza partigiana abbia costituito per il giovane Calvino il terreno di coltura per lo sviluppo da un lato di una sensibilità che privilegia la sfera della collettività e della condivisione rispetto a quella dell'individualità e dell'egoismo, e dall'altro di un interesse sociologico-speculativo sempre crescente per i sistemi complessi e la modellizzazione delle loro dinamiche strutturali; offre un quadro della situazione degli studi sociologici in Italia nel secondo dopoguerra, sottolineando come questi si muovano fondamentalmente tra l'approccio positivista classico e quello, prevalente, di stampo marxista; e infine illustra l'amore difficile tra Calvino e il Partito comunista italiano tra la fine della guerra e gli anni successivi ai fatti di Budapest, mettendo soprattutto in luce come l'ortodossia zdanovista del partito, in cui ogni discorso artistico è subordinato a superiori esigenze politiche, appaia sin da subito troppo gretta a una mente inquieta e aperta al pensiero complesso e plurale come quella di Calvino.
Nel secondo capitolo, "Uno sguardo sociologico sui fenomeni culturali", la produzione saggistica di Calvino è esplorata alla luce dell'idea che lo scrittore abbia fornito riflessioni interessanti su questioni oggi oggetto di studi sociologici precisi come i rapporti tra letteratura, cinema e televisione da un lato e società dall'altro. Intervenendo nel dibattito sul grande cinema italiano del dopoguerra, e in particolare su tre capolavori usciti nel 1960 (Rocco e i suoi fratelli di Visconti, La dolce vita di Fellini e L'avventura di Antonioni), Calvino mostra notevole indipendenza nei confronti degli schemi ideologici rigidi della critica marxista dominante, anticipando quella vera e propria rottura epistemologica che consisterà nel considerare il cinema come una modalità di espressione artistica dotata di un proprio linguaggio specifico e irriducibile ai canoni tradizionali dell'estetica letteraria. A proposito della televisione, il soggiorno negli Stati Uniti tra il 1959 e il 1960 consente a Calvino di osservare i prodromi di un mutamento epocale nei costumi sociali e culturali indotto dalla televisione, la quale, pur veicolando molto cinema, tende a tenere le famiglie isolate e lontane da spazi pubblici di condivisione collettiva di esperienze culturali come le sale cinematografiche, e inoltre promuove una modalità di fruizione passiva che si pone in netto contrasto con quella richiesta dalla lettura, con conseguenze sulle strutture cognitive degli individui che oggi si manifestano in tutta la loro drammaticità sul piano non solo socio-psicologico ma anche politico. L'esigenza della ricostruzione di un tessuto culturale nazionale dopo lo sfacelo provocato dal Fascismo e dalla guerra, il lavoro di ricerca culminato con la pubblicazione delle Fiabe italiane e la collaborazione intellettuale ed editoriale con Elio Vittorini, che con la sua "intransigenza etica" lo segna profondamente, contribuiscono a creare in Calvino la convinzione che la letteratura sia uno degli strumenti di cui una società si dota per comunicare e socializzare il proprio mondo culturale e la sua tradizione. In tal senso lo scrittore ha il compito di orientare l'attenzione non su se stesso e la sua soggettività, ma sul mare dell'oggettività, facendosi per gli altri veicolo magari ludico e ironico di cultura, esperienze, letture, vita, e facendo parlare ciò che non ha parola, persino, se fosse possibile - come dirà alla fine delle Lezioni americane pervenuteci - «l'uccello che si posa sulla grondaia, l'albero in primavera e l'albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica».
Il terzo capitolo, "L'analisi della modernità: democrazia, città e consumi", fa tesoro delle premesse ermeneutiche offerte dai capitoli precedenti e offre una rilettura in chiave sociologica di tre opere narrative di Calvino: La giornata d'uno scrutatore (1963), Marcovaldo (1963) e Le città invisibili (1972). E così la "città nella città" del Cottolengo di Torino diventa nelle riflessioni di Amerigo Ormea, chiaro alter ego di Calvino, metafora sia dell'involuzione burocratica e alienante della civiltà democratica, con lo sfruttamento cinico dei moribondi, dei disabili e dei malati di mente a fini elettoralistici da parte del partito di Governo (la Democrazia Cristiana), sia della possibilità di un riscatto attraverso la collaborazione e la solidarietà tra bisognosi ed emarginati, che costituiscono l'essenza stessa della vita democratica della polis. Episodi come Luna e Gnac e Marcovaldo al supermarket offrono in chiave ironica e comica una esemplificazione delle acute riflessioni di Calvino sull'onnipotenza della nascente civiltà della pubblicità e dei consumi, e anticipano l'incubo omologante dell'universo concentrazionario dei centri commerciali, che troverà ne La caverna (2000) di José Saramago forse la sua più icastica rappresentazione contemporanea. Mentre città invisibili come Cloe, Cecilia, Pentesilea, Trude e Leonia (su quest'ultima si è concentrato in particolare Bauman in Amore liquido e Consumo, dunque sono) costituiscono delle vere e proprie visioni apocalittiche idealtipiche delle trasformazioni in atto nelle città contemporanee, che diventano sempre di più spazi continui, omologati, ricorsivi, e pertanto invisibili a invivibili per gli individui, condannati a quell'isolamento nella folla già descritto da Friedrich Engels ne La situazione della classe operaia in Inghilterra del 1845 (che Calvino, come documenta Elena Gremigni, aveva ben presente all'epoca della stesura de Le città invisibili).

Si comprende, pertanto, come Calvino sia riuscito ad anticipare alcune delle categorie concettuali più influenti della successiva sociologia della globalizzazione, come quella di "surmodernità" di Marc Augé e quella di "modernità liquida" di Bauman, fornendo delle potenti immagini metaforiche (il Cottolengo di Amerigo, il supermarket e lo spazio urbano di Marcovaldo, le città invisibili) in grado di fungere da veri e propri strumenti euristici per i sociologi di oggi. Ed Elena Gremigni può giustamente concludere lamentando il fatto che in Italia manchi ancora un approccio di questo tipo all'opera di Calvino, «mentre altrove sociologi come Zygmunt Bauman e Howard S. Becker tributano il loro omaggio allo scrittore italiano attraverso acute analisi dei suoi testi. Questi importanti approfondimenti critici dimostrano che la lettura delle opere di Italo Calvino può arricchire in modo notevole la formazione dei sociologi» (p. 102).
Vale la pena allora chiudere ridando la parola a Calvino e proponendo un passo tratto dalla versione italiana di una conferenza sulle Città invisibili tenuta in inglese dallo scrittore il 29 marzo 1983 a New York davanti agli studenti della Graduate Writing Division della Columbia University, poi stampata come Presentazione nella riedizione Oscar Mondadori 1993 dell'opera (il passo non è citato nel saggio di Elena Gremigni, ma costituisce un sostegno ulteriore a favore sia della plausibilità del suo approccio critico sia dell'entusiastico giudizio di Bauman riportato sopra): «Credo che non sia solo un'idea atemporale di città quello che il libro evoca, ma che vi si svolga, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna. Da qualche amico urbanista sento che il libro tocca vari punti della loro problematica, e non è un caso perché il retroterra è lo stesso. E non è solo verso la fine che la metropoli dei "big numbers" compare nel mio libro; anche ciò che sembra evocazione d'una città arcaica ha senso solo in quanto pensato e scritto con la città di oggi sotto gli occhi. Che cosa è oggi la città, per noi? Penso d'aver scritto qualcosa come un ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili».

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