È luogo comune presso i giallisti che l’embrione del genere poliziesco sia quel luogo celeberrimo del Genesi (4, 1-16) in cui l’ignoto autore racconta dell’assassinio di Abele da parte del fratello più grande Caino e della conseguente scoperta e punizione del colpevole da parte dell’investigatore, che in quel testo è chiamato ora “il Signore” ora “Dio”. Una riprova dell’attrazione che questo episodio biblico esercita sugli autori di storie di detection è costituita ad esempio dal fatto che una volta Andrea Camilleri ha fatto dire al suo commissario Montalbano che, se dipendesse da lui, riaprirebbe il caso Caino. Perché? Perché, osservava il commissario, Caino ha subito un ingiusto processo, visto che è stato condannato, senza poter ricorrere a un avvocato, per un delitto commesso in assenza di testimoni oculari umani e, si potrebbe aggiungere, a seguito di una confessione estorta da un inquisitore troppo minaccioso e potente. Senza contare che, nell’occasione, un unico soggetto riuniva in sé i ruoli di testimone oculare (sovrumano e onniveggente), pubblico ministero e giudice. Se si aggiunge infine che tale soggetto era anche l’autore onnisciente e il puparo dell’opera inscenata, e che quindi sapeva in anticipo come avrebbero agito i suoi pupi, si comprende facilmente come Caino sia stato semplicemente incastrato e in che senso il suo caso meriti di essere riaperto.
A riaprirlo in grande stile, quello stesso stile unico e personalissimo che gli è valso il premio Nobel per la letteratura nel 1998, è stato José Saramago, il cui mirabile Caino, pubblicato in lingua originale nell’ottobre del 2009, è uscito in Italia alla fine dell’aprile 2010 (circa due mesi prima dalla morte dello scrittore, avvenuta il 18 giugno) presso Feltrinelli, nella consueta e sempre puntuale traduzione di Rita Desti. Saramago, però, non è propriamente un giallista e la sua rivisitazione provocatoria dell’antico mito ebraico mira a rovesciare i ruoli e a mettere sotto accusa non il fratricida ma il suo creatore, inquisitore e giudice, cioè Dio. Questo artificio retorico del rovesciamento di un luogo comune relativo al profilo morale di un ben noto personaggio dell’immaginario collettivo, va detto, non è originalissimo. Già nel V secolo avanti Cristo, infatti, il filosofo Gorgia da Lentini, servendosi di una raffinata argomentazione logica (e praticamente codificandone la struttura formale, ancora valida), aveva assolto Elena di Troia dall’accusa proverbiale di adulterio nel suo Encomio di Elena. E, tanto per fare un altro esempio famoso, nel 1962, l’appena trentenne Umberto Eco aveva messo in piedi un indimenticabile "Elogio di Franti" (poi incluso nel Diario minimo) e aveva mostrato come il proverbiale bullo reietto di Cuore potesse essere visto sotto una luce ben diversa, evidenziandone il carattere positivamente ilare, vitale, anticonformista e addirittura rivoluzionario. Ma il merito di Saramago è quello di alzare il tiro e di mettere in discussione uno dei pilastri della nostra cultura, emulando così in audacia il blasfemo “Abel et Caïn” di Baudelaire, che si conclude con il memorabile «Race de Caïn, au ciel monte, / Et sur la terre jette Dieu» (Les Fleurs du Mal, CXIX, 31-32).
Ritornando sui racconti biblici quasi vent’anni dopo quello straordinario Vangelo secondo Gesù Cristo (1991) che tanti nemici gli ha creò presso il clero portoghese e romano, al punto che decise di trasferirsi nell’isola di Lanzarote (Canarie), Saramago questa volta si concentra su alcuni libri dell’Antico Testamento (in particolare Genesi, Esodo, Giosuè e Giobbe) e fa di Caino un uomo lucido che, spinto al fratricidio da un Dio irrazionale, malvagio e irresponsabile (per quale motivo preferì il dono sacrificale del pastore Abele ai prodotti agricoli di Caino?), decide di metterne sotto accusa il creato e di ostacolarne i piani e le azioni, esercitando la sua vendetta su alcuni suoi strumenti umani ottusamente docili, poiché non può uccidere direttamente il Padre (Caino è «colui che odia dio», p. 117, e le sue vittime «non sono altro, come lo era già stato abele nel passato, che altrettanti tentativi di uccidere dio», p. 139). Così vediamo Caino che, condannato a una vita errabonda dopo l’assassinio del fratello, si sposta magicamente in groppa al suo giumento nello spazio-tempo di alcuni luoghi testuali cruciali dell’Antico Testamento (tutti rivisitati con la massima fedeltà), assistendo in maniera più o meno attiva al folle gesto di Abramo che sta per sacrificare il figlio Isacco, alle conseguenze dell'inspiegabile abbattimento da parte di Dio della Torre di Babele, all’olocausto indiscriminato di Sodoma, all’episodio del vitello d’oro ai piedi del monte Sinai, ai genocidi innominabili compiuti da Giosuè su ordine esplicito di Dio, alla collaborazione tra Dio e Satana per tormentare inutilmente il povero Giobbe, fino alla distruzione del genere umano e al privilegio assurdo accordato a Noè e alla sua famiglia. In tutti questi casi, Caino riflette sull’operato di Dio e ne smaschera la follia e la malvagità gratuita alla luce della logica, del lumen naturale e del più elementare sentimento di compassione umana, senza alcun cedimento alle finte sottigliezze interpretative dei causidici, dei teologi e di tanti filosofi compiacenti. E così, per esempio, di fronte all’ordine impartito da Dio ad Abramo di sgozzare il piccolo Isacco, la voce narrante, lungi dall’echeggiare il timore tremebondo di un Kierkegaard o le raffinate analisi postmoderne di un Derrida, commenta tale disumana enormità osservando sommessamente che «la cosa logica, la cosa naturale, la cosa semplicemente umana sarebbe stata che abramo avesse mandato il signore a cagare, ma non è andata così» (p. 67). Viceversa, di fronte alla strage dei sodomiti compiuta da Dio senza risparmiare nemmeno le donne e i bambini, Caino può dire ai due angeli che «uno solo dei bambini morti come tizzoni a sodoma basterebbe per condannarlo senza remissione» (p. 112), riecheggiando questa volta il ben noto argomento del dostoevskiano Ivàn Karamazov, poi rilanciato da Albert Camus ne L’uomo in rivolta.
Significativamente, poi, l’unico importante personaggio positivo oltre Caino è Lilith, che Saramago, usando certe varianti della tradizione, immagina abbia dato a Caino il figlio Enoch (sulla cui madre il testo biblico invece tace: cfr. Genesi, 4, 17). Ma Lilith non compare mai nella Bibbia (se si eccettua il controverso Isaia 34, 14, in cui il corrispondente nome ebraico è normalmente tradotto con “civetta”), perché è una figura popolare creata successivamente sulla base di reminiscenze mesopotamiche e incarna l’immagine della donna vampiro, strega, adultera e ninfomane. Nel testo di Saramago, invece, Lilith trova un riscatto e appare come una donna appassionata e non malvagia, come se Saramago avesse volutamente costruito un personaggio libero e al di là del bene e del male pescandolo al di fuori del recinto testuale dell’Antico Testamento, che invece risulta colmo quasi esclusivamente o di assassini come Giosuè o di servi sciocchi come Abramo. Con lei, che alcune versioni della leggenda considerano la prima donna di Adamo e madre dello stesso Caino, il Caino di Saramago vive i suoi unici momenti di felicità, malgrado la gioia sia esclusa dalla sua vita per decreto divino (cfr. p. 117).
Con la sua prosa ironica e leggera, infine, Saramago rende il lettore sempre vigile sul fatto che si sta facendo letteratura su letteratura, e che il processo a Dio intentato da Caino, il quale ci insegna che gli dèi non si venerano ma si denunciano e si demistificano, non ha velleità teologico-filosofiche, né assume come anche solo ipoteticamente vere l’ipotesi di un Dio siffatto e la sua cosiddetta “parola”, cioè il testo biblico. Quello che Saramago ci sta dicendo tra le righe, molto più semplicemente e, forse, molto più seriamente, è che ad essere sotto accusa è quell’umanità capace non solo di concepire favole così stupide, assurde e crudeli, ma di prestarvi ancora fede e di fondare irresponsabilmente su di esse istituzioni politiche, agenzie ideologiche e codici morali.
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