«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


domenica 25 dicembre 2011

Elogio di Per la verità di Diego Marconi


Conosco Diego Marconi da molti anni ed ho avuto il piacere di incontrarlo diverse volte tra la fine degli anni Novanta e il 2003 (a Vercelli, a Reggio Emilia, a Milano e a Palermo). Tra l'altro, è stato uno dei miei interlocutori principali all'epoca in cui lavoravo alla mia tesi di dottorato su Wittgenstein e Popper (1995-1998) ed ho anche avuto l'onore di un suo parere positivo, pur avendo scritto un intero capitolo critico nei confronti di una sua proposta interpretativa sul tipo di relativismo da attribuire all'ultimo Wittgenstein, contenuta ne L’eredità di Wittgenstein (Laterza 1987).

Il suo recente Per la verità. Relativismo e filosofia (Einaudi 2007) è un piccolo gioiello di lucidità analitica in cui sono implacabilmente disinnescate quelle tentazioni filosofiche che, per difetto di logica e per antiscientismo preconcetto spesso dovuto solo a una formazione idealistica che inibisce irrimediabilmente un intelligente e competente avvicinamento alla vera scienza (di solito confusa con la caricatura offerta da mistici di varia foggia come Fichte, Hegel, Croce, Gentile e Heidegger), ci condannano alla danzante deriva ermeneutica all'inseguimento dell'Essere eternamente dileguantesi, sognata dal pensiero debole (“Non esistono fatti ma solo interpretazioni”, suona l’adagio nietzscheano rilanciato in Italia da Gianni Vattimo nella forma della tesi per cui i fatti sono intessuti di, e al postutto creati da, interpretazioni), e/o alla teoria disperante e deresponsabilizzante del relativismo culturale estremo (ogni sistema concettuale ha una sua nozione di “verità” incommensurabile con quella degli altri sistemi).

Marconi muove dall'idea che la nozione più condivisa di "verità", in grado di catturarne la "caratteristica nucleare", sia quella basata sull'accettazione del principio T di Tarski:

È vero che "P" se e soltanto se P (cfr. p. 6 e pp. 66-69).

Di conseguenza, dice Marconi, «è possibile che ci sia altro da dire, sulla verità, oltre a ciò che è espresso dal principio di Tarski, (T); ma se qualcuno usa il concetto di verità in modo non conforme al principio non sta parlando di verità, ma di qualcos'altro» (p. 6).

Su queste premesse si basa quella che per me è la parte più stimolante del libro di Marconi, ovvero la critica all'idea di Heidegger (poi ripresa e riformulata in chiave pragmatista da Rorty e fatta propria anche da Vattimo, insieme al quale Marconi, va ricordato, ha curato l’edizione italiana de La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani 1986) secondo cui senza l'Esserci non ci può essere verità, nel senso che, essendo qualcosa che si svela all'uomo, senza quest'ultimo essa semplicemente non potrebbe essere, e quindi niente sarebbe vero o falso. A tal proposito, Marconi cita (a p. 66) due passi tratti dai primi due capoversi del § 44c di Essere e tempo (p. 278 dell'edizione italiana Longanesi 2000, XV ed.; Marconi però cita dal Meridiano del 2006), quelli in cui si dice che le leggi di Newton, prima di Newton, non erano né vere né false, sebbene esse abbiano reso «accessibile per l'Esserci l'ente in se stesso», cioè le cose come effettivamente stavano prima; e sottolinea che, se Heidegger avesse ragione, allora ci sarebbe un'eccezione al principio T di Tarski costituita da un mondo senza menti, ovvero da tutti i mondi possibili non abitati dall'Esserci. In tali mondi, infatti, potrebbero esserci stelle e montagne, ma non sarebbe vero che ci sono stelle e montagne. Laddove, per il principio di Tarski, in ogni mondo possibile, se ci sono stelle e montagne allora è vero che ci sono (e viceversa). E questo è già un buon motivo per pensare che Heidegger (e con lui Rorty) abbia torto.

Ora, io non sono sicuro che l'interpretazione di Marconi del passo di Heidegger sia corretta, se non altro perché egli tratta dal punto di vista logico-analitico (verità come corrispondenza tra un'asserzione e lo stato di cose asserito) la nozione heideggeriana di "verità" nello stesso momento in cui si mostra consapevole che quest'ultima ha un'altra natura, diciamo mistico-ontologica (verità come «apertura [Erschlossenheit], scoprimento ed esser-scoperto [Entdecktheit]», nella trad. Longanesi di P. Chiodi, ovvero come «schiudimento, svelamento e stato di svelamento», nella trad. Mondadori di A. Marini). Oltretutto, mi stupisce che Marconi abbia evitato di citare la ben più esplicita dichiarazione di relativismo da parte di Heidegger che si trova subito dopo il passo da lui riportato: «In virtù del suo essenziale modo di essere conforme all'Esserci, ogni verità è relativa all'essere dell'Esserci» (anche se ciò non significa, come precisa subito Heidegger, che ogni verità sia "soggettiva": il suo è un relativismo trascendentale, non certo protagoreo). Tuttavia mi pare che Marconi colga nel segno quando accusa Heidegger (e Rorty) di confondere la verità con l'accesso alla verità (p. 69): infatti, c'è una bella differenza tra il dire che in un mondo privo di menti niente e nessuno avrebbe accesso alla verità e il dire che di un tale mondo niente sarebbe vero.

Per riprendere un frequente esempio di Marconi, una cosa è dire che all'epoca dei greci nessuno aveva accesso al fatto che il sale fosse cloruro di sodio (vero), un'altra è dire che non è vero che anche a quell'epoca il sale fosse cloruro di sodio (falso). Che il sale da cucina sia NaCl, al di là della contingenza estrinseca della terminologia e della simbologia della chimica, è un fatto vero del mondo (fino a prova contraria), indipendentemente dalla circostanza che lo schema concettuale di una data cultura abbia o no accesso ad esso. Negare questo, aggiungo io, significherebbe non avere alcuna possibilità di spiegare come mai un antibiotico può salvare la vita anche a uno stregone animista.

Il fatto che il sale sia NaCl dipende soprattutto dalla struttura atomica della materia, che, se la nostra chimica è vera (e abbiamo fino a questo momento ottime ragioni per pensarlo), è indipendente dalle nostre concettualizzazioni, il cui compito consiste nel renderci accessibile il fatto, non di crearlo. Ecco la soluzione di Marconi, che io mi sento di condividere in pieno: «Che un modo in cui le cose stanno sia accessibile (cioè pensabile o descrivibile nel linguaggio) solo grazie e attraverso una qualche concettualizzazione, per quanto primordiale ('Questa cosa sta qui, quella cosa sta lì'), è ovvio: la premessa del ragionamento del relativista concettuale è del tutto plausibile. Ma il relativista ne deriva conseguenze che non sono altrettanto ovvie. Anzitutto, ne deriva la tesi che un modo in cui le cose stanno dipende da una concettualizzazione: non esiste se non per via di quella concettualizzazione. Questa implicazione è piuttosto pesante e controintuitiva. Il sale non era cloruro di sodio prima della creazione della chimica? E allora che cos'era? (...) Non è facile per il relativista dare risposte sensate e convincenti a questo genere di domande. Ma se si ammette che il sale, da quando esiste, è sempre stato cloruro di sodio, che le stelle sono sempre state soggette a fusione nucleare, e così via, il relativismo concettuale perde molto del suo mordente» (p. 64).

Marconi non si inoltra in terreni come la tesi dell'equivalenza tra verità e giudizio di valore, né fa pendere il valore dal lato della scienza. La sua nozione di verità si estende anche alle normali intuizioni che ci guidano nella vita di ogni giorno. Non distingue tra fenomeni quantitativi e qualitativi, né tanto meno attribuisce "verità" ai primi. La verità si predica non di fenomeni ma di asserzioni e credenze, o meglio ancora di proposizioni, se per "proposizione" si intende fregeanamente "ciò che un enunciato esprime", ovvero il "pensiero" oggettivo da esso veicolato (cfr. p. 38 e p. 45, n. 7), anche se non necessariamente nel senso platonizzante di Frege, che lo collocava in un Terzo Regno (cfr. p. 68 e n. 22 di p. 86). A tal proposito io sarei irresistibilmente tentato di precisare la cosa ricorrendo alla nozione popperiana di Mondo 3, dichiaratamente mutuata anche da Frege e agganciata a una piena adesione al principio T di Tarski, ma devo lasciar perdere perché una volta Marconi, mentre gli parlavo del mio lavoro su Popper e Wittgenstein, mi ha detto di non nutrire molta simpatia per Popper e di frequentarlo poco (del resto Popper detestava la filosofia del linguaggio, e quindi l'antipatia di Marconi è comprensibile. Non a caso, quando Marconi cita Popper, a p. 37 e a p. 39, lo fa in maniera critica ma imprecisa, perché si lascia fuorviare da un'errata interpretazione relativistica del suo pensiero avanzata da Enzo Di Nuoscio nel suo Elogio del Relativismo del 2005). In ogni caso, resta il fatto che Marconi, secondo me giustamente, non si sognerebbe mai di sostenere la tesi che la verità appartiene solo ai fenomeni indagati dalla scienza. Sarebbe una tesi falsa nella migliore delle ipotesi o, nella peggiore, un nonsenso basato su un errore logico di categoria.


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