«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


domenica 25 dicembre 2011

Antologia di recensioni e note sul mio libro Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele.





Raccolgo in questa nota (espandibile) le osservazioni meditate che alcuni amici facebookiani (e non solo) hanno avuto la bontà di dedicare al mio saggio interpretativo sull'opera narrativa di Umberto Eco. Invito quanti lo avessero letto a fare altrettanto, se ne hanno voglia. Naturalmente sono ben accette anche critiche feroci e stroncature apocalittiche (purché argomentate). Se gli amici antologizzati volessero apportare delle modifiche di qualsiasi tipo ai loro pezzi, non hanno che da segnalarmele: sono a loro disposizione.

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La "recensione" orale e pubblica di Umberto Eco a Milano, Libreria Les Mots, 17-12-2011



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Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele di Marco Trainito. Considerazioni estive

di Rocco Lo Bartolo (dal "Corriere di Gela" del 26 agosto 2011).


Dopo aver assistito alla presentazione dell’ultima fatica di Marco Trainito, mi è venuta voglia di buttare giù alcune considerazioni. Ora, mai potrò parlare male del mio collega – mi arrogo il diritto di ergermi a suo collega sia perché trascorsi tragicomici ci hanno forgiati e legati, sia perché è vero, siamo colleghi, essendo entrambi al soldo del Ministero della Pubblica Istruzione – perché lo conosco da tanti, troppi anni per non sapere quanto entusiasmo ed impegno ci mette nell’elaborare le sue opere. Dopo l’ultima pagina del Cimitero di Praga mi ero ripromesso di non toccare più Umberto Eco perché è un autore ‘fuori di chiave’, per dirla con Pirandello, ovvero incorpora componimenti intenzionalmente dissonanti su temi difformi, oscillanti. Pirandello diceva che il personaggio che ciascuno di noi rappresenta nella vita sociale non ispira fiducia che per la sua costanza e impone questa fisionomia immutabile alla sua coscienza di se stesso. Ecco: i personaggi dei romanzi di Eco, così attentamente analizzati dall’autore, non hanno questa caratteristica e sono, appunto, ‘fuori di chiave’. Ed è ciò che ho notato anche, sin dalle prime pagine, nell’Odissea nella Biblioteca di Babele dell’amico Marco. Anche lui è ‘fuori di chiave’ a prima vista, perché sembrerebbe non avere filo narrativo, ma se dall’avvertimento si passa al sentimento (di nuovo Pirandello!) i temi sono maledettamente congruenti. Ed ecco allora che l’autore inforca gli occhiali di Guglielmo da Baskerville e, lui stesso Guglielmo, diventa un personaggio, ricavato, per metodo d’indagine, dalla figura assai cara al suo maestro Eco: a Sherlock Holmes ed alle sue capacità deduttive. La sua umiltà ed il suo desiderio di conoscenza sembrano riprendere a tratti ed esaltarne gli aspetti migliori del detective (Guglielmo o Sherlock?). Ed è affascinante soffermarsi sulle sue deduzioni (o abduzioni?) vedi la lunga dissertazione sulla genesi del titolo del romanzo che ha dato ad Eco l’immortalità. E’ affascinante e provocatoriamente impegnativo, anche per gli addetti ai lavori, saltellare (come il passero di Catullo) da Huizinga (ricordi, caro Marco, la prima volta che abbiamo avuto in mano l’Autunno del Medioevo? Era in una di quelle ‘vite precedenti’ che abbiamo vissuto assieme) a Bernardo Morliacense, da Kubrick ai filosofi greci, da Borges a Peirce, al tanto amato Wittgenstein, da rosa a blitiri in una fantastica cavalcata semantica e semiologica. Questa opera, poi, finalmente scorrevole, (ma in realtà anche il Cammilleri lo era…) è una sorta di Pendolo di Foucault, perché, come il Pendolo, è un’opera che quando la si apre non si sa dove cominciare né dove si può andare a finire. E’ – come il libro di Eco – un’opera complessa: è incalzante, è rigorosa, è emozionante; ed ancora appassionante, provocatoria, affabulatoria, intricante, sofisticata, il ‘fuori di chiave’ di cui sopra… A lui si confà una frase di Guglielmo che, durante il suo percorso investigativo, parlando del sapere dice: Il sapere non è come la moneta, che rimane fissamente integra anche attraverso i più infami baratti: esso è piuttosto come un abito bellissimo, che si consuma attraverso l’uso e l’ostentazione[…]. Ed il piacere, nel leggerlo, è la sua applicazione. In quest’opera, a mio modestissimo parere, l’autore ha stravolto un dettame della filosofia di Guglielmo di Occam e cioè Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem ed ha fatto esattamente il contrario, cosa che non dispiace all’analisi attenta del lettore. Certo, tra le parti più riuscite dell’analisi di Marco è senza dubbio quella riguardante il gioco del labirinto. Dalla descrizione del labirinto dell’abbazia, naturalmente analizzato come coscienza del disorientamento, pur nella sua raccapricciante perfezione geometrica, si scende ad un’indagine più profonda che mi suggerisce questa considerazione che passo al mio amico: il più celebre dei labirinti, quello di Cnosso era chiamato Absolum. Dunque questa parola assomiglia molto ad Absolu parola con la quale gli antichi alchimisti (molto bistrattati, assieme a Rosacrociani, Massoni e Templari, dall’autore!) indicavano la Pietra Filosofale. Teseo che lotta nel labirinto è l’alchimista che combatte le difficoltà della Grande Opera, difficoltà dalle quali si esce solo possedendo il filo di Arianna, ossia la necessaria conoscenza segreta. Tacciamo qui, perché Marco non lo cita (anche se ne è un profondissimo conoscitore) del mito di Giasone e del vello d’oro, ovvero la Pietra Filosofale stessa (cosa, più del vello, che dà l’abbondanza potrebbe essere rappresentativo della Pietra stessa?). Certo si potrebbe continuare sottolineando come il labirinto, ovvero la caverna, rappresenti il grembo materno e dunque esso ci appare come l’uscita verso la vita e non più borgesianamente l’aspettare la morte (come fa il Minotauro). Dunque ciò può essere visto come un viaggio iniziatico ed è, se non erro, dove ci porta Eco con i suoi scritti: iniziare il lettore ad un mondo fatto di riferimenti culturali sempre più complessi per poi dis-velarli (qui si potrebbe ancora continuare con l’idea di Storia come, appunto, dis-velamento). Ed è forse la stessa via intrapresa da Marco con la sua opera?

Nota a margine:avevo scritto più su come, durante il corso del saggio, ci sia una malcelata antipatia dell’autore nei confronti di esperienze esoteriche di ogni genere. Ora, conoscendo la strenua difesa dell’anticlericalismo dell’autore, sono completamente in sintonia con lui quando attacca gente (Dan Brown, per esempio,) che, con qualche conoscenza teatrale di esoterismo ha fatto la propria fortuna, ma risolvere problematiche come il rosacrocianesimo con la risibile leggenda di Rosenkreutz, per esempio, mi sembra non voler affrontare seriamente il problema esoterico che, invece, il suo maestro, pur con personalissime idee, cerca di tener sempre presenti nei suoi scritti. Marco è troppo colto (siamo completamente nel suo campo!) nel non ritenere l’esoterismo, aldilà delle stupide procedure di iniziazione alla Eyes Wide Shut, dei Massoni per esempio, parte integrante della maggior parte delle religioni e parlo qui del tantrismo, del buddismo zen, per quanto riguarda il Brahmanesimo e il Buddismo, del sufismo, vicino all’Islamismo, e parlo anche del Cristianesimo riferendomi, come lui sa, all’impronta gnostica delle origini, alle forme manicheistiche del Medioevo alla qabbalah del Rinascimento (ovviamente di derivazione ebraica), fino ai nostri giorni. Come si vede, il discorso è così complesso da meritare, a mio modestissimo parere, dall’autore, un qualcosa in più di una semplice pernacchia. Sa bene Marco che c’è esoterismo da ‘serie A’ e da serie più infime e sa che in quello da ‘serie A’, due idee essenziali caratterizzano la tradizione esoterica: quella della pluralità delle esistenze trascendenti dell’anima e quindi la particolare concezione dell’origine del male e il modo in cui l’uomo può dominarlo. Ho conosciuto gente onesta, ligia al lavoro, buoni padri di famiglia che hanno impiegato tanto tempo della loro vita a seguire un percorso evolutivo che non doveva essere per forza una via mistica ovvero contemplazione estatica del mondo spirituale, ma soprattutto una via razionale, la rappresentazione sintetica dell’universo visibile per mezzo delle idee-madri. Gente che si è calata in questi studi non per ottenere la Pietra Filosofale, ma perché fermamente convinta che il male, nostro vero nemico, può essere combattuto attraverso un grande e alto ideale. Un uomo senza ideali – diceva Rudolf Steiner – è un uomo senza forza. Nella vita dell’uomo, l’ideale ha la medesima funzione del vapore nella locomotiva: ne è la forza motrice. E dunque, caro Marco, perché ridere di questa gente?



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Marco Trainito, lettore modello del semiologo Umberto Eco

di Federico Guastella (19 agosto 2011)


[Pubblicato sul "Corriere di Gela"]


A distanza di trent’anni, facendo un “check-up” del romanzo Il nome della rosa, Marco Trainito afferma che il suo stato di salute è ottimo. L'“effetto poetico”, espressione usata da Umberto Eco nelle "Postille" a indicare la capacità di un testo di generare “letture sempre diverse”, non si è consumato. Tanti i motivi di attualità, a partire dal principio di laicità, inteso come autonomia di pensiero in contrapposizione al conformismo, fino al populismo mediatico e al fondamentalismo, oggi ampiamente diffusi. “Di fronte allo spettacolo desolante dei capi di tutti i tipi (…)”, egli annota con acume, “vale ancora il meraviglioso monito di Guglielmo rivolto alla fine del romanzo ad Adso: 'Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro'".

Sono, questi, alcuni spunti del poderoso impegno di Trainito nel suo volume di recentissima pubblicazione, Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele, sottotitolato "Con una intervista dell’autore a Umberto Eco" (Padova, Il prato, 2011). Nell’ “Introduzione” egli coglie i temi portanti degli altri romanzi dell’illustre semiologo con specifico riferimento ai loro rapporti, mentre nell’ “Appendice” riporta il sommario analitico de Il pendolo di Foucault. L’attenzione maggiore comunque è rivolta a Il nome della rosa, considerato come la “summa” dello smarrimento nei labirinti dell’Enciclopedia totale. L’ipotesi di lettura che Trainito propone trae spunto dal viaggio conoscitivo di Ulisse. Destinazione è la biblioteca dell’abazia, labirinto in cui personaggi e lettori si perdono, si specchiano e si riconoscono, “come accade”, spiega, “nei corridoi ricorsivi della biblioteca borghesiana e nelle immensità allucinanti dello spazio kubrickiano”. E, in merito, il nostro critico, il cui intento è quello di mettere in luce l’autoinganno consolatorio dell’uomo, fa leva sulla competenza fondamentale dell’analisi intertestuale, la cui complessità non può che generare una sorta di “incubo”. Perciò penitenziale è il viaggio dell’apprendista lettore. Il parallelismo che instaura con un particolare filone della letteratura sapienziale è oltremodo suggestivo. La metamorfosi di Lucio ne L’asino d’oro avviene in funzione della sua divinizzazione: in un primo tempo il protagonista, pasticciando con dei filtri magici, si trova trasformato in asino e solo dopo molte vicissitudini potrà finalmente cibarsi delle rose che lo fanno ritornare uomo, un uomo però diverso dallo stato originario, perché alla fine del percorso diventa sacerdote della dea Iside.

Analogo, per certi aspetti, il tragitto del lettore critico che con occhi e mente si nutre del romanzo per giungere all’“illuminazione del senso”. In sostanza, sia il neofita che cerca la luce divina che l’apprendista proteso all’analisi del linguaggio affrontano le prove dell’andare nel labirinto, ma differente resta la semantica dell’approdo. Nella prospettiva ascetico-mistica, percorrerlo significa volgersi all’interno di sé in cui risiede la dimensione dell’altrove metafisico; in quella ermeneutica, invece, l’interprete può piegare il testo a infinite connessioni, sviscerandone la polivocità dei significati. Assai coinvolgente è il commento che Trainito fa di un passo de Il pendolo di Foucault, utilizzando uno scritto minore di Porfirio, il De antro ninpharum che, a suo dire, riserva molte sorprese sulle tematiche echiane. L’indagine è approfondita ed evidenzia l’intreccio labirinto-caverna (del resto, il termine “labirinto” è ricondotto da alcuni studiosi a Labra o Laura, termini indicanti la cava, la miniera e i loro cunicoli: unito alla desinenza Inda, che in greco significa “giocare”, darebbe Labrinda, cioè “gioco della caverna”). Che Umberto Eco nelle sue opere abbia sfrenatamente utilizzato riferimenti più o meno colti, più o meno espliciti, è cosa nota. Egli stesso ne fornisce la motivazione, riferendola all’incapacità dei personaggi “di guardare al mondo se non per interposta citazione”. E’ nelle “Postille” che egli spiega il motivo per cui ha usato pensieri desunti da autori moderni, facendoli passare per medioevali. In questo caso, dice, “non erano i miei medievali a esser moderni, caso mai erano i moderni a pensare medievale”. Siamo nelle “citazioni anacronistiche”, così chiamate perché desunte da autori vissuti successivamente al periodo in cui vengono utilizzate: “Si tratta”, spiega Trainito, “di ammiccamenti intertestuali al lettore colto per suggerire di volta in volta parallelismi tra le diverse epoche storiche basati sulla permanenza di certi atteggiamenti, idee o teorie”. Ed egli si riferisce, tanto per fare un esempio, alla pagina dell’ “Ultimo Folio”, laddove Adso cita in tedesco la definizione di Dio come sonoro Nulla, che è di Angelo Silesio, un mistico del XVII secolo. Sterminata, dunque, la biblioteca echiana, dove il nostro studioso si pone come il “lettore modello” che coopera con il testo, illustrandone le “intenzioni implicite”. Discorso seducente questo che introduce al rapporto ineludibile tra Wittgenstein e Umberto Eco, di cui viene, ad esempio, colta l’immagine wittgensteiniana della “scala”, presente ne Il nome della rosa. L’analisi viene anche approfondita alla luce del fallibilismo di Peirce, rinvenibile per lui nel passo dove Guglielmo da Baskerville, “raffinato e logico detective”, spiega ad Adso la consistenza del suo metodo investigativo.

E nel senso del nominalismo e dello scetticismo non mancano corpose osservazioni sul titolo di detto romanzo. Trainito mette così in moto la sua bramosia conoscitiva. Il riferimento colto e il brano oscuro passano al vaglio della sua strategia intra e intertestuale. Instaura parallelismi tra le opere di Eco, ne precisa i dettagli, intravede molteplici livelli di lettura, riporta brani significativi e li esamina tenendo in mente il criterio dell’inseparabilità del percorso letterario dalla produzione saggistica nell’opera echiana, di cui tiene in considerazione interventi di autorevoli studiosi (Cotroneo 2001; Forchetti 2005; Lorusso 2008; Montalto – a cura di – 2009). Abbastanza approfondito il rapporto Borges-Eco che conduce all’immagine del labirinto.

La documentazione è di ampio respiro, e penetrante appare il discorso che egli fa seguendo il capitolo intitolato "Borges e la mia angoscia dell’influenza" nel saggio di Eco Sulla letteratura. Cinque i racconti dell’argentino presi in esame: La biblioteca di Babele, Pierre Menard, autore del Chisciotte, La morte e la bussola, La ricerca di Averroè, La casa di Asterione. Trainito ne svela le corrispondenze, si sofferma sull’ultimo di essi, non citato da Eco come sua fonte, ed estende il discorso sull’incontro del semiologo, allora trentenne, con il romanzo Nel labirinto di Robbe-Grillet (1959). Allora il labirinto non può non essere raffigurato come “rizoma”: una rete senza centro e periferia, potenzialmente infinita, dove ogni punto di intersezione tra le sue linee può connettersi con qualsiasi altro, imboccando qualsiasi linea. Senza gerarchie, in esso ci si muove alla cieca e non si sa se sia possibile uscirne. Il commento si rivela abbastanza incisivo: "E’ questa la sapienza, nominalista e scettica, che attende di rivelarsi al lettore alla fine del romanzo, la cui ragion d’essere Eco stesso (forse) illustrava nel risvolto di copertina delle prime edizioni parafrasando ironicamente non a caso la già citata ultima proposizione del Tractatus di Wittgenstein 'di ciò, di cui non si può teorizzare, si deve tacere'". Come a dire che il silenzio metafisico si risolve nel suono di uno sterile “blitiri”. Il nonsenso aleggia così sul labirinto della biblioteca, mentre il sussurro che vi si ode è il dialogo dei libri che parlano tra loro.

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Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele di Marco Trainito
di Elena Gremigni (4 agosto 2011)

[Pubblicato su Uncommons a cura di Francesco Panaro]

I romanzi di Umberto Eco presentano una struttura complessa che si sviluppa attraverso continui rimandi ad altri testi, con citazioni, molto spesso implicite, non sempre facilmente individuabili anche dai lettori meno sprovveduti. Il volume di Marco Trainito Umberto Eco: odissea nella biblioteca di Babele – pubblicato nella collana I Centotalleri diretta da Jacopo Agnesina e Diego Fusaro – costituisce in questo senso un indispensabile strumento per comprendere le molteplici stratificazioni di significato che possono essere rintracciate nei sei romanzi scritti da Eco tra il 1980 e il 2010 (Il nome della rosa, Il pendolo di Foucault, L’isola del giorno prima, Baudolino, La misteriosa fiamma della regina Loana, Il cimitero di Praga). Trainito accompagna il lettore nell’interpretazione dei testi con competenza filologica e gusto per l’ironia, segnalando riferimenti noti, ma, soprattutto, scoperte originali che offrono un contributo significativo nell’ambito della critica e consentono di rileggere questi romanzi attraverso prospettive diverse. L’autore di questa vera e propria guida nel labirinto della letteratura echiana, prende le mosse dalla convinzione che la produzione narrativa di Eco sia inseparabile da quella saggistica. Ed è proprio nelle opere di semiotica, oltre che in alcuni scritti occasionali, che vengono rintracciate le chiavi di lettura dei romanzi. Così, ad esempio, la logica abduttiva di Peirce, che si avvicina al metodo investigativo di Sherlock Holmes descritto da Arthur Conan Doyle, è al centro delle riflessioni teoriche di Eco proprio nel periodo in cui si dedica alla stesura del romanzo giallo di ambientazione medioevale Il nome della rosa; la polemica nei confronti dell’ermeneutica pantestualista, riconducibile al decostruzionismo di Derrida, al pragmatismo postmodernista di Rorty e al “pensiero debole” di Vattimo, costituisce la premessa filosofica su cui si fonda la critica al ciarpame letterario di carattere esoterico, ermetico e misterico che viene ironicamente stigmatizzato nel Pendolo di Foucault; fino ad arrivare alla parodia del mito del “complotto”, criticato dall’Eco filosofo in molte occasioni assieme a tutte le interpretazioni selvagge della storia, rintracciabile nel Cimitero di Praga, un romanzo che Trainito dimostra essere una sorta di spin off proprio del Pendolo.

I lettori che hanno già avuto modo di confrontarsi con questi romanzi, che non li hanno mai letti o ne hanno abbandonato la lettura dopo poche pagine per le difficoltà incontrate, potranno trovare in questo volume nuovi stimoli e motivazioni a cimentarsi in quello che lo stesso Eco considera una sorta di percorso iniziatico che occorre intraprendere se si vuole trasformare il proprio rapporto con i libri in una esperienza veramente formativa. Come scrive Trainito, “l’autore si diverte a umiliare il lettore facendolo sentire un asino che si aggira per i corridoi della biblioteca di babele”, ma al tempo stesso lancia una sfida che avvince il lettore che decide di raccoglierla e produce, quando viene condotta al termine, lo stesso piacere che si prova risolvendo un gioco enigmistico. Del resto Eco è perfettamente consapevole dell’importanza della cooperazione interpretativa del lector in fabula e il livello di difficoltà che presentano i suoi romanzi è in fondo un segno del profondo rispetto che l’autore nutre nei confronti dell’intelligenza dei lettori. L’analisi critica proposta nell’Odissea nella biblioteca di Babele, peraltro, non nasconde la presenza di errori o incongruenze all’interno degli stessi romanzi di Eco e il lettore può così sentirsi un po’ meno ignorante se anche il professore qualche volta cita fonti di seconda mano, commette un lapsus calami nel presentare Apuleio come se fosse un autore greco o si confonde sulle date degli appuntamenti del protagonista duplice (Simonini / Dalla Piccola) del Cimitero di Praga. D’altra parte, alcuni refusi risultano del tutto comprensibili se si pensa alla difficoltà di gestire strutture narrative e fabulae altamente complesse facendo riferimento a innumerevoli fonti che vanno da Borges a Wittgenstein, ma comprendono anche citazioni alla portata degli studenti delle scuole superiori o rimandi alla cultura popolare che non necessitano di conoscenze particolarmente elevate per essere comprese. Dopo aver rivelato al lettore alcune delle più significative allusioni celate all’interno di questi romanzi, Trainito conclude la sua brillante rilettura dell’opera narrativa di Umberto Eco con un’intervista inedita in appendice, particolarmente illuminante per comprendere i rapporti dell’autore con la filosofia di Popper e il significato del nome attribuito alle figure femminili presenti nell’Isola del giorno prima e nella Misteriosa fiamma della regina Loana. Una seconda appendice propone, infine, un dettagliato sommario analitico del Pendolo di Foucault, assolutamente indispensabile per coloro che lo hanno acquistato senza riuscire a portare a termine la lettura di quello che, come ricorda Marco Trainito, è probabilmente il romanzo più venduto e meno letto della storia della letteratura italiana.



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Silvia Molè (5 agosto 2011)

Ho appena finito di leggere l’ultimo libro del prof. Marco Trainito Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele, Ed. Il Prato, un bellissimo saggio che ripercorre l’opera di Eco, decodificandola e mettendo in evidenza le innumerevoli simbologie e i complessi rapporti di interdipendenza con correnti di pensiero, filosofie e autori del passato. In questa nota prenderò in considerazione esclusi...vamente il capitolo 2, sezione IV, che si sofferma sul “Nome della Rosa” relativamente alla logica dell’abduzione, di cui Eco è profondo conoscitore ed estimatore. M. Trainito illustra nel dettaglio come l’attività investigativa di Guglielmo rispecchi il metodo di indagine proposto dal grandissimo filosofo americano Charles Sander Peirce, analizzato da Eco in due saggi: “Corna, zoccoli, scarpe: tre tipi di abduzione” e “L’abduzione in Uqbar” . In particolare Trainito mette in evidenza il turbamento che esso provoca nel benedettino Adso, “che aderisce ad una nozione realista della verità e a una visione del mondo in cui c’è perfetta corrispondenza, garantita da Dio, tra ordine delle idee e ordine delle cose” . E infatti Peirce, nell’articolo “The fixation of belief” scrive: “Per lo scolastico medievale la logica costituiva il primo studio del ragazzo dopo la grammatica ed era considerata facile, dato il modo in cui essa veniva intesa. Egli partiva infatti dal presupposto che tutta la conoscenza poggia o sull’autorità o sulla ragione, ma che tutto ciò che è dedotto mediante la ragione dipende in ultima analisi da una premessa poggiante sull’autorità. Quindi non appena un ragazzo si era impossessato del procedimento sillogistico il suo armamentario di strumenti intellettuali era ritenuto esaurito”. Trainito ad esemplificazione riporta le parole di Adso: “Ebbi l’impressione che Guglielmo non fosse affatto interessato alla verità, che altro non è che l’adeguazione tra la cosa e l’intelletto. Egli invece si divertiva a immaginare quanti più possibili fosse possibile” e spiega sulla base del celebre esempio dei fagioli il ragionamento abduttivo, che rimanda da vicino a quello applicato da Conan Doyle e Borges nelle loro storie di detection: “Il fatto soprendente C viene osservato. Ma se A fosse vero, C ne sarebbe una conseguenza. Quindi, c’è ragione di sospettare che A sia vero” (Peirce, 1903). In questo modo Trainito decodifica in modo brillante il passo del libro in cui Guglielmo spiega ad Adso il suo metodo investigativo: “Adso – disse Guglielmo – risolvere un mistero non è la stessa cosa che dedurre da principi primi. E non equivale neppure a raccogliere tanti dati particolari per poi inferire una legge generale. Significa piuttosto trovarsi di fronte a uno, o due o tre dati particolari che apparentemente non hanno nulla in comune, e cercare di immaginare se possono essere tanti casi di una legge generale che non conosci ancora, e che forse non è mai stata enunciata”. In questo senso, aggiungo io, possiamo anche comprendere Einstein nel momento in cui afferma “l’immaginazione è più importante della conoscenza”.

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Sebastiano Abbenante (6 agosto 2011)

Il recente libro di Marco Trainito su Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele merita, oltre che la lettura, anche dei commenti.

Marco Trainito confeziona l’ultima sua opera per la collana I Centotalleri collocandosi tra i giovani ingegni che dalla letteratura filosofica e contemporanea traggono spunti e ragionamenti. Chi legge un libro di Marco Trainito deve prima spulciare i riferimenti bibliografici, perché da lì si trae, in prima approssimazione, l’ampiezza dei ragionamenti riportati nel testo dell’opera. E poiché il libro si focalizza sulla figura di uno dei massimi scrittori italiani contemporanei, verso cui Trainito opera un culto ed una analisi non contingente, si rischia di commentare il libro commentando Eco. Mi sottrarrò a tale facile tranello, lasciando al lettore il godimento dei contenuti di decifrazione sul grande semiologo italiano.

Mi concentrerò invece sull’investigatore Marco Trainito che ordisce una architettura che è già pregevole in sé e su cui mi pronuncerò. La lettura del libro svela chiavi di lettura ma soprattutto l’indole dell’autore. Data la mia distorsione ingegneristica nel giudicare la prassi voglio evocare il paradigma del “ponteggiatore”, figura che oggi sta per essere sostituita da ben altre tecniche di lavori in quota. Ancora si usano i ponteggi (peraltro costosi) per operare su edifici e apparecchiature in quota, ponteggi che costituiscono una gabbia con cui circondare l’oggetto della ristrutturazione e della manutenzione. I costi stanno oggi facendo avanzare invece la tecnica dello skyjack ossia dei ponteggi mobili a pantografo che consentono un risparmio ed una mobilità, pur selettiva, nei lavori in quota.

Ebbene, Marco è uno scrittore da ponteggio, non si concede alle nuove tecniche della mobilità selettiva ed ha le sue ragioni per avallare tale scelta. Il ponteggio circonda l’opera e consente (a costi elevati) di muoversi attorno a tutta l’opera pur dovendone manutenzionare una sola parte. Il costo sta nell’impegno di conoscenze profuso che il lettore non può non notare. Trainito si muove così, avvolgendo l’opera su cui ragiona, studiandone i contenuti macro e intersecandoli con i dettagli, correlando le opere tra loro anche quelle meno conosciute o che hanno ricevuto scarsa accoglienza. Trainito avvolge l’opera dello scrittore con un ponteggio pervasivo. Ciò non gli impedisce però di curare il dettaglio, anzi il dettaglio è lo spunto per giustificare un’intera facciata dell’edificio e tale prassi alla fine si dimostra efficace. Ma il ponteggio che circonda l’opera di Eco è anche un atto di amore passionale, nata da giovane studente e perpetrata negli anni in un culto dei dettagli e delle chiavi di decifrazione che esaltano l’autore ed il lettore insieme. Marco incrocia anche i fatti minimali, le interviste, le frasi dette, gli incontri e la temporalità sequenziale dei fatti per trarre significati e segni dell’opera del semiologo, concedendosi, perché suo massimo godimento, alla spiegazione dei metodi investigativi, deduttivi ed abduttivi, che i personaggi di Eco usano e commentano nelle complicatissime storie rappresentate nei romanzi. Insomma un ponteggio di ottima fattura attorno alle monumentali opere, o meglio architetture, che Eco sa confezionare per disvelare l’arcano, vero o falso che sia. Un ottimo ponteggiatore Marco, di quelli che ancora curano l’arte della manutenzione delle opere che passano alla storia, avvolgendole nei suoi strumenti di indagine ricchi per correlazioni e citazioni. Ne raccomando la lettura dopo aver indossato il casco di protezione individuale per passare indenni tra i “ponteggi” del nostro acuto concittadino.

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