«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


domenica 25 dicembre 2011

Un lungo addio all'eterno ritorno di Nietzsche


31 luglio 2010


È stato bello finché è durato. Arrivederci, amigo.

Non vi dico addio. Vi dissi addio quando significava qualcosa.

Vi dissi addio in un momento di tristezza e di solitudine, quando sembrava definitivo.

[Raymond Chandler, Il lungo addio (1953), tr. it. Milano, Feltrinelli 2006, p. 312]

Nietzsche resta per me il filosofo più affascinante e penetrante. Però, a un certo punto della vita le passioni giovanili (si tratta del filosofo su cui ho fatto la tesi di laurea) vanno esaminate a sangue freddo e qualche conto va regolato. Si parva licet componere magnis, lo stesso Nietzsche lo ha fatto con Wagner e Schopenhauer.

L’idea dell’eterno ritorno è una di quelle ‘immagini’ del pensiero che possono sedurti e prenderti alla gola anche per molto tempo (Nietzsche non fece in tempo a liberarsi di questa immagine che lo teneva prigioniero), ma alla fine viene un momento in cui, rivedendole con più rigore, si sfaldano come neve al sole.

Per quanto riguarda l’aspetto etico-esistenziale di tale idea (che è quello che emerge nell’aforisma 341 della Gaia scienza), c’è poco da dire. Siamo nel campo dei gusti, delle storie e delle scelte personali. Così come si può amare una persona al punto da essere portati a dichiarare di volerla così com'è per sempre, si può amare la vita al punto da volere che essa si ripeta identica infinite volte. Niente di male. Ma poi uno si imbatte nel caso Welby e capisce che in questa etica c’è ben poco di generalizzabile (al massimo essa può assurgere al rango di imperativo ipotetico).

Per quanto riguarda invece l’espetto cosmologico, l’idea dell’eterno ritorno espone il fianco a una critica epistemologica pressoché definitiva. Nietzsche contava molto sulla propria ‘prova cosmologica’ dell’idea, come testimonia il sincero impegno scientifico e argomentativo delle pagine che vi ha dedicato negli ultimi anni della sua vita mentale (per comodità di citazione rimando agli aff. 1057-1066 della pur screditata Volontà di potenza del 1906, ed. it. a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Milano, Bompiani 1992). Nietzsche ‘deduce’ l’eterno ritorno basandosi su tre assunzioni date per vere:



1) Il mondo è una quantità finita di energia in continua (ma non infinita) riconfigurazione fenomenica (cfr. VP 1062);

2) Tale energia si conserva sempre uguale, ovvero vale il Principio di conservazione dell’energia (cfr. VP 1063);

3) Il Tempo è oggettivo, unico, lineare e infinito in avanti e all’indietro (cfr. VP 1066).



La mossa successiva è inesorabile e logicamente valida (è uno schema di inferenza che ha persino un nome nei manuali di Logica: “Prova condizionale”): «Se il mondo può essere pensato come una determinata quantità di energia e come un determinato numero di centri di forza (…) ne segue che nel grande gioco di dadi della sua esistenza deve attraversare un numero calcolabile di combinazioni. In un tempo infinito, ogni possibile combinazione deve realizzarsi almeno una volta; di più: deve realizzarsi infinite volte» (VP 1066).

Ora, questa ‘prova’, basata sulla meccanica classica, può essere attaccata in due modi, dall’esterno e dall’interno. Una critica esterna può fare appello alla meccanica relativistica e dire, ad esempio, che, poiché la terza assunzione è falsa, l’argomento è formalmente valido ma empiricamente infondato. Questa critica, però, benché molto forte, deve necessariamente assumere (almeno) la verità dell’equazione relativistica di Einstein sul tempo (ovvero la quarta “trasformazione di Lorentz”), e quindi legare ad essa il suo destino (e un giorno potremmo provare empiricamente che la teoria della relatività è falsa: per il momento sappiamo solo a priori che essa, come tutte le teorie generali, ha probabilità zero di essere vera, assumendo un universo infinitamente molteplice: cfr. Karl Popper, Logica della scoperta scientifica, Appendice *VII). Più interessante è invece, secondo me, la seguente critica interna all’argomento di Nietzsche, perché essa gli concede la verità delle premesse (“le sue premesse […] devono essere vere se il pensiero è vero”, VP 1059). A tal proposito mi baserò sul § 67 della Logica della scoperta scientifica, dove Popper (che non fa alcun cenno a Nietzsche) mostra la fallacia di qualsiasi “sistema probabilistico di metafisica speculativa”. Il punto chiave è che l’argomento di Nietzsche è empiricamente debole proprio in virtù della sua inesorabile forza logica. Esso, infatti, deduce una regolarità cosmologica, cioè una macrolegge (l’eterno ritorno dell’identica serie di configurazioni fisiche del mondo), da un’assunzione di probabilità massima (in un tempo infinito ciascuna configurazione ha probabilità uguale a 1 di ripetersi non solo una volta, ma infinite volte). In tal modo, però, l’argomento è logicamente vero ma empiricamente vuoto. Per dirla nei termini della teoria matematica dell’informazione, l’asserzione dell’eterno ritorno ha probabilità logica uguale a 1 ma bit di informazione (cioè contenuto informativo) uguale a zero (essendo per definizione il bit di informazione uguale al logaritmo in base due dell’inverso della probabilità). Con argomenti di questo tipo si può ‘dedurre’ qualsiasi regolarità. Ad esempio, è logicamente vero che una scimmia, lasciata per un tempo infinito davanti a una tastiera, digiterà non una ma infinite volte la sequenza di lettere che corrisponde alla Divina commedia. Ma è anche fattualmente pacifico che con ciò non abbiamo detto nulla (ad esempio sull'intelligenza delle scimmie).

L’idea dell’eterno ritorno, dunque, è semplicemente un’arguta ‘finzione’ (nel senso di Borges) basata su un uso superficialmente creativo ma profondamente tautologico di alcuni assunti della fisica classica. Anche la fisica del XX secolo ha generato le sue brave ‘finzioni’ cosmologiche. Un esempio particolarmente curioso (e secondo me filosoficamente più intrigante dell’idea dell’eterno ritorno) è la cosiddetta “interpretazione dei molti mondi” della meccanica quantistica, avanzata da Hugh Everett III negli anni Cinquanta per scongiurare le conseguenze pericolosamente soggettivistiche e idealistiche che sembravano comportare il principio di indeterminazione di Heisenberg e la funzione d’onda di Schrödinger. Non a caso, infatti, per spiegare la congettura di Everett qualcuno si è servito de Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges: cfr. D. H. Hofstadter – D. C. Dennett, L’io della mente (1981), tr. it. Milano, Adelphi 2001, pp. 52-58.

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