«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


lunedì 13 febbraio 2012

Per una filosofia delle stronzate




(fine 2005)

Vale la pena segnalare un gustosissimo libriccino che nell’autunno del 2005 ha avuto un grosso e meritato successo editoriale. Si tratta di Stronzate. Un saggio filosofico (Rizzoli, 62 pagg., di cui appena 50 ‘nette’, € 6) di Harry G. Frankfurt, professore di filosofia a Princeton. Negli Stati Uniti (dove è uscito nello stesso anno presso la Princeton University Press) è stato un best-seller e qui da noi ha attirato l’attenzione persino di Umberto Eco, che gli ha dedicato un’intera ed esauriente “Bustina di Minerva” (cfr. “L’espresso”, a. LI, n. 42, 27/10/2005), sulla quale tornerò.
In estrema sintesi, quello di Frankfurt è un tentativo insieme ironico e rigoroso di dare una definizione filosofica della “stronzata” (di cui il villaggio globale è pieno), intesa come atto linguistico che mira a raggiungere un tornaconto personale (pubblicità, potere, bella figura, ecc.) attraverso espressioni che tradiscono una assoluta indifferenza nei confronti del valore di verità di quello che si asserisce sul mondo. In tal senso, la stronzata è eticamente peggiore della menzogna volontaria, perché il bugiardo, almeno, accetta l’idea che sia possibile avere credenze vere sulle cose (e infatti cerca di spacciare il falso come vero), mentre colui che dice stronzate – cioè contraffazioni non necessariamente false - è uno che semplicemente educa se stesso e gli altri all’idea che il valore di verità delle asserzioni descrittive sia una questione irrilevante, se non un’assurdità. Egli, quindi, anche se non lo sa, è uno scettico che, invece di scegliere il silenzio (come l’antico Pirrone), continua a “produrre asserzioni che danno a intendere di descrivere le cose come stanno, ma che non possono essere altro che stronzate” (p. 59).
Il finale del saggio è un memorabile pugno nello stomaco sferrato alla retorica della “sincerità”, cioè della fedeltà epistemologica centrata su se stessi e sul proprio fumoso vissuto privato, in genere propalata da chi nel contempo ha dichiarato inaccessibile la realtà oggettiva, impossibile una conoscenza condivisa del mondo e infine vano l’ideale dell’“esattezza”: “Come esseri coscienti, esistiamo solo nella nostra reazione alle altre cose, e non possiamo in alcun modo conoscere noi stessi senza conoscere quelle. Per di più, non esiste nulla nella teoria, e di certo nulla nell’esperienza, a sostegno dello straordinario giudizio che la verità su se stessi sia la più semplice da conoscere. I fatti su noi stessi non sono particolarmente solidi e resistenti alla dissoluzione dello scetticismo. Le nostre nature sono, anzi, elusivamente inconsistenti – notoriamente meno stabili e meno dotate di una propria intrinseca realtà rispetto alle nature delle altre cose. E se questo è vero, la sincerità in sé è una stronzata” (p. 62).
Come lascia intendere Eco tra le righe della sua “Bustina”, un discorso come quello di Frankfurt, che come esempio principale di stronzata cita il discorso di un Presidente degli Stati Uniti in cui con finta seriosità si fa riferimento alla balla retorica secondo cui i Padri Fondatori della nazione americana erano guidati da Dio, non può non far drizzare le orecchie a noi italiani, che per cinque anni siamo stati governati da un ballista di professione il cui ideale di vita e di pensiero è riuscire a vendere ghiaccioli agli eschimesi, al punto che ‘piazzare’ sogni a fini elettorali è per lui ordinaria amministrazione (“Creeremo un milione di posti di lavoro”, “Diminuiremo le tasse”, “Aumenteremo le pensioni minime”, “Costruiremo case per tutti”, ecc.).
Aggiungerei che la scuola è uno dei luoghi più importanti su cui l’analisi di Frankfurt può gettare una luce rivelatrice. Naturalmente è troppo facile sparare sulla Croce Rossa e dire che presso i ragazzi, sempre più diseducati a uno stile di pensiero che ha a cuore l’ideale dell’esattezza e del controllo della validità delle affermazioni, le stronzate sono molto di moda, soprattutto nelle interrogazioni (quante volte capita di sentire luoghi comuni stucchevoli e infondati sui contenuti delle varie discipline, pronunciati solo perché produrre suoni è da loro considerato meglio che tacere?). Più serio è invece, a mio giudizio, auspicare che siano innanzi tutto i docenti a fare del rigore (logico, storico, filologico, scientifico ecc.) un habitus intellettuale e un ideale regolativo da trasmettere ai ragazzi. È ben noto, infatti, che non di rado noi docenti, per cavarci d’impiccio e continuare a dare la falsa impressione di una super-competenza (peraltro non richiesta, né tanto meno raggiungibile) su tutto ciò che riguarda le nostre discipline di insegnamento, cediamo alla tentazione di improvvisare informazioni campate in aria, vale a dire stronzate, su cose intorno alle quali abbiamo conoscenze scarse, superficiali e non di prima mano. Eppure basterebbe solo ammettere di non sapere e indicare magari le sedi dove la trattazione è esauriente e documentata.
Conviene soffermarsi un po’ sulle fonti utilizzate da Frankfurt per sviluppare la sua tesi, perché esse forniscono spunti interessanti sulle concezioni ‘etiche’ di fondo del libro. Sostanzialmente, queste fonti sono quattro (o, a limite, sei, come si vedrà), che elenco nell’ordine in cui appaiono:
  1. Max Black, The Prevalence of Humbug (“La prevalenza delle sciocchezze”) (CUP, Ithaca 1985), da cui Frankfurt trae la definizione-chiave di “schiocchezze”, dalla cui analisi dettagliata il libro prende le mosse (pp. 13-26).
  2. R. Rhees (a cura di), Recollections of Wittgenstein (OUP, Oxford 1984; tr. it. – ignorata dal traduttore di Stronzate - Conversazioni e ricordi, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005), da cui Frankfurt trae due aneddoti su Wittgenstein che, per quanto in sé marginalissimi, sono brillantemente reinterpretati e si pongono alla base della sua analisi etico-linguistica della nozione di ‘stronzata’ (pp. 26-39).
  3. Oxford English Dictionary, alla voce “bullshit” (“merda di toro”, cioè, per noi italiani, “stronzata”; la voce è usata anche come verbo, to bullshit someone, nel senso di “raccontare stronzate a qualcuno”) e affini, dove tra l’altro Frankfurt trova due riferimenti letterari (uno a Ezra Pound, Cantos, LXXIV, e uno al romanzo Dirty Story di Eric Ambler) molto utili per l’accezione del termine ‘stronzata’ che gli sta a cuore sottolineare e approfondire in chiave filosofica (pp. 39- 54).
  4. Agostino, La menzogna, nella cui analisi degli otto tipi di menzogna Frankfurt non trova spunti particolarmente significativi per il suo discorso sulle stronzate (pp. 54-56).
Come si vede, le fonti filosoficamente più significative sono solo le prime due, e se si tiene presente che Black è un insigne studioso di Wittgenstein (è autore, tra l’altro, del fondamentale A Companion to Wittgenstein’s Tractatus, pubblicato nel 1964) e che la sua analisi delle “sciocchezze” è chiaramente wittgensteiniana, ci si rende conto che il vero ispiratore del saggio di Frankfurt è Wittgenstein, ovvero la sua tensione ‘etica’ nell’ossessiva analisi del linguaggio ordinario. La percezione del fondo etico del saggio ‘analitico’ di Frankfurt (che è soprattutto un filosofo morale) mi lascia però un rimpianto per una fonte classica che egli ha inspiegabilmente mancato di citare. A mio parere, infatti, invece della citazione poco più che ornamentale del trattato agostiniano sulla menzogna, egli avrebbe dovuto fare almeno un riferimento all’Ippia Minore di Platone, dove menzogna, verità e saggezza sono discussi da Socrate e Ippia in relazione ad Achille (il veritiero) e Ulisse (il menzognero). Frankfurt, infatti, nell’attribuire a chi mente maggiore saggezza morale e filosofica rispetto a chi spara solo stronzate (cfr. p. 58 ), non fa che riecheggiare in parte il discorso di Socrate, il quale confuta Ippia facendogli notare che il bugiardo Ulisse non può essere inferiore in saggezza al sempre e solo veritiero Achille, perché la menzogna presuppone la conoscenza del vero e del falso, mentre l’incapacità di mentire presuppone la loro ignoranza (e infatti gli animali non mentono mai, perché semplicemente non possono farlo).
Torno, per finire, alla “Bustina” di Eco, che peraltro mi ha spinto a comprare e leggere il saggio di Frankfurt, per dargli un’affettuosa bacchettata frankfurtiana. A un certo punto, Eco scrive: “Dovete sapere che i filosofi americani sono molto sensibili al problema della verità dei nostri enunciati, tanto che passano il tempo a chiedersi se sia vero o falso dire che Ulisse è tornato a Itaca, dal momento che Ulisse non è mai esistito”.
Ora, questo è un esempio, se non proprio di “stronzata” nel preciso senso di Frankfurt, almeno di “stronzatina”, di “minchiatina” rifilata ai lettori sprovveduti della “Bustina” che non hanno dimestichezza con la filosofia del linguaggio, né tanto meno hanno letto l’informatissimo Semiotica e filosofia del linguaggio (1984) dello stesso Eco, dove un’affermazione così superficiale sarebbe impensabile. Intanto, va precisato subito che, se quello che dice Eco vale certamente per alcuni filosofi americani (da Peirce fino a Quine, Putnam, Searle, Davidson, Kripke, ecc.), altri (da James fino a Pirsig, passando per Dewey e Rorty) non sono affatto interessati a tali questioni di semantica logica; ergo, la generalizzazione è falsa. Ma oltre che falsa, essa è anche fuorviante, per almeno due ragioni: 1) l’esempio di Ulisse non compare MAI nel saggio di Frankfurt, contrariamente a quanto potrebbe supporre il lettore della “Bustina” che non abbia letto Stronzate; 2) tale famosissimo esempio, con tutte le questioni logiche e semantiche connesse, è stato introdotto da Frege (cioè un tedesco) in Senso e denotazione (1892), saggio che, insieme a Sulla denotazione (1905) di Russell (un inglese) e al Tractatus (1921-1922) di Wittgenstein (un austriaco trapiantato in Inghilterra), ha dato vita in Europa a un ampio dibattito, che è arrivato in America solo negli anni Trenta anche in seguito al fatto che alcuni filosofi continentali - come Carnap, allievo di Frege - vi si trasferirono dopo l’ascesa al potere da parte di Hitler.
Un giorno Wittgenstein, all’amica Fania Pascal, che si era appena operata di tonsille e che aveva dichiarato davanti a lui di sentirsi come un cane investito da un’auto, rispose disgustato: “Lei non può sapere come si sente un cane investito da un’auto” (cfr. Conversazioni e ricordi, cit., p. 51). Frankfurt osserva che la sgarbatissima e indelicata risposta del filosofo si può spiegare solo se si tiene conto della sua avversione etica ed epistemologica nei confronti delle stronzate, poiché in quel caso specifico Fania offrì superficialmente “la descrizione di un certo stato di cose senza sottomettersi sul serio alle costrizioni imposte dall’impegno di fornire un’accurata descrizione della realtà” (p. 37). Ebbene, sarei tentato di girare allo stesso Eco queste ultime parole, se non fossi certo che egli non è tra quelli che abitualmente bullshit us.

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