«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


lunedì 21 ottobre 2013

Lucia sicuramente non andò con l'Innominato ma Napoelone forse è morto alle Galapagos

Quando discussioni serie (come il problema epistemologico della verità) rimbalzano da un blog a Twitter e vengono afferrate al volo da una stampa ansiosa di creare mostri e scatenare la caccia allo stregone, succede che Odifreddi venga ridotto a un negazionista. Da qui la canea del "dàgli all’untore!" e compagnia abbaiante, che per definizione non ha la più pallida idea delle questioni filosofiche in gioco. Ora Odifreddi ha provato a spiegare, riassumendo alcuni dei problemi fondamentali relativi alla definizione della verità in ambito logico, scientifico e storico. Ma quello che dice, naturalmente, è ancora niente rispetto a ciò che il dibattito contemporaneo ha prodotto, diciamo dal 1892 (anno di pubblicazione di Senso e denotazione di Frege) a oggi.
Si consideri, ad esempio, un enunciato come "Ulisse sbarcò a Itaca immerso in un sonno profondo". Per Frege esso non è decidibile (perché "Ulisse" non ha denotazione), mentre per Russell, che propose poco dopo un modello di analisi logica diverso, esso è semplicemente falso, perché Ulisse non è mai esistito. Ma circa un secolo dopo arriva Umberto Eco e, sulla base della semantica dei mondi possibili, sostiene che quell'enunciato non solo è vero (nel mondo dell'Odissea) ma costituisce un paradigma per la verità di quelli empirici (quindi non solo storici), una sorta di ideale regolativo cui si può tendere con gradi diversi di approssimazione.
Se qualcuno trova strano che, per esempio, un enunciato storico largamente condiviso possa essere "meno vero" di uno riferito ai mondi narrativi della fantasia, provi a dire a un esame di letteratura italiana che Lucia, dopo aver visto un film porno sul Palantir della sua cella, scappò con l'Innominato e i due si trasferirono con il teletrasporto a Mordor, dove furono ospitati in un bordello gestito da Biancaneve e i sette nani. Nessuna nuova scoperta, infatti, può modificare i fatti dell'edizione definitiva dei Promessi sposi. Viceversa, se uno studente riuscisse in qualche modo a 'provare', con documentazione inedita e plausibile, e prima di essere cacciato a padate da un professore permaloso, che Napoleone 'in realtà' morì di spavento il primo marzo del 1821 alle Galapagos vedendo una tartaruga gigante, prenderebbe la lode e avrebbe un futuro accademico assicurato (magari in Francia), perché la Storia è una narrazione in linea di principio sempre rivedibile alla luce di evidenze documentarie nuove.
Cosa vuol dire tutto ciò? Semplicemente che gli enunciati storici non possono mai avere il grado di certezza degli enunciati riferiti a universi narrativi chiusi, né, tanto meno, di quelli logico-matematici cui fa riferimento Odifreddi. A limite, possono avvicinarsi al tipo di conferma posseduto dagli enunciati scientifici sperimentali. Il suo problema è nato perché si è trovato ad illustrare queste cose in un contesto ad alto rischio, come una discussione sulle camere a gas. Eco, invece, che notoriamente è molto più prudente di Odifreddi, quando affronta questi argomenti usa esempi più innocui (come la data di morte di Napoleone). Ma il concetto è identico.
Ecco il post esplicativo di Odifreddi, che ormai è come una pezza messa a tamponare uno tsunami.

Che cos’è la verità?
17 ottobre 2013

Per coloro che si fossero perse le puntate precedenti, mi chiamo Piergiorgio Odifreddi, e sono un logico matematico. Il che significa che ho passato la mia vita a cercare di capire qual è la risposta alla domanda del titolo. Che secondo la leggenda, fu posta da Pilato, anche se poi lui se ne andò senza neppure aspettare che il suo interlocutore provasse a rispondere.

Le risposte però ci sono, benché ovviamente interessino più i pochi logici in circolazione, che i tanti Pilati che se ne lavano le mani di cosa sia la verità. In particolare, secoli di indagini hanno prodotto una classificazione dei suoi vari tipi.

Si parte dalle verità matematiche, che sono dimostrate in maniera logica e controllabili da chiunque abbia un’alfabetizzazione adeguata. Si passa alla verità scientifiche, che non sono mai completamente assodate, e sempre sottoposte a continue verifiche sperimentali, spesso effettuabili solo da chi abbia adeguati mezzi tecnologici. Si arriva poi alle verità storiche, che si basano su testimonianze di varia mano, relative a fatti unici e non riproducibili, e che dunque non possono mai avere il grado di affidabilità delle verità scientifiche, per non parlare di quelle matematiche.

Da un punto di vista individuale, poi, il grado di certezza che ciascuno di noi assegna alle varie verità dipende non solo dalla loro natura, ma anche dalla nostra conoscenza di esse. Il teorema di Fermat, ad esempio, è stato dimostrato da Andrew Wiles, ma anche un matematico come me non ha gli strumenti concettuali per capirne la dimostrazione: dunque, la mia certezza della verità del teorema si basa su testimonianze di seconda mano, in particolare su libri e articoli di divulgazione, e non su una conoscenza diretta.

Questo non significa che non creda al teorema di Femat, ovviamente. Significa però, altrettanto ovviamente, che ci credo in una maniera diversa da come credo al teorema di Pitagora, che invece so dimostrare in una dozzina di modi diversi (anche se uno solo già basterebbe).

Nella discussione del post del 12 ottobre ho detto esattamente le stesse cose, riferendole all’argomento di cui si parlava allora: che era Priebke in primis, e i crimini nazisti in subordine. Ma sarebbe stato lo stesso se si fosse parlato della scoperta dell’America, vista la data, o di qualunque altro argomento. Perché, come si sarà capito, il discorso è generale: dunque, si applica a tutto ciò che ha a che fare con la verità (storica in questo caso), niente escluso.

Che un giornalista come Gianni Riotta, che queste cose le sa benissimo, avendo anche lui studiato logica come me, possa aver preso spunto da esse per attivare la sua personale macchina del fango, accusandomi di negazionismo, è singolare e sconsolante.

Io non conosco i suoi motivi, che possono essere solo la leggerezza di un utente entusiasta di un mezzo banalizzante della discussione come Twitter. Ma possono anche essere la mala fede di chi, quando gli si fa notare che ha detto una stupidaggine, non si degna nemmeno di rispondere alla mail, mostrando la volontà di negarsi ai chiarimenti.

Ovviamente, il mitico “popolo della rete” l’ha seguito a ruota libera, gridando all’untore. Perché non gli interessa verificare cosa una persona possa aver detto, e meno che mai cercare di capirlo. Gli interessa solo ripetere ciò che appare nei 150 caratteri che costituiscono ormai il limite massimo dell’attenzione e dell’approfondimento.

Che sia così per i due terzi della popolazione italiana, che secondo la recente rilevazione Ocse non arrivano al livello minimo di alfabetizzazione per poter agire consapevolmente in una società sviluppata, è un fatto col quale dobbiamo convivere, per quanto spiacevolmente.

Purtroppo è così anche per molti professionisti della carta stampata. Luigi La Spina, ad esempio, che su La Stampa mi chiama “epigono nostrano del negazionismo storico“. O Massimo Adinolfi, che sul Messaggero paragona le mie opinioni a quelle di Irving. O il Giornale e il Fatto Quitidiano, che riportano entrambi con foto la notizia che questo blog è stato chiuso, scambiandola dolosamente con una di un anno fa.

Nella discussione “incriminata” osservavo banalmente che molti di noi confondono ciò che vedono nei film, o leggono nei romanzi, con la verità storica. Questi esempi dimostrano paradossalmente che alla lista dobbiamo aggiungere anche i giornali: non tutti, magari, ma certo almeno quelli che ho nominato. E, questa volta, lo so per conoscenza diretta, e non solo per sentito dire.

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