«Das Leben der Erkenntnis ist das Leben, welches glücklich ist, der Not der Welt zum Trotz» (Ludwig Wittgenstein, Tagebucheintrag vom 13.8.16).


«E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (…): “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”» (Italo Calvino, chiusa di "Perché leggere i classici").


«Neque longiora mihi dari spatia vivendi volo, quam dum ero ad hanc quoque facultatem scribendi commentandique idoneus» (Aulo Gellio, "Noctes atticae", «Praefatio»).


sabato 10 gennaio 2015

IL PRIMO APOCRIFO ECHIANO

Recensione di Numero Zero di Barbara Bara (Edizioni Bramantip, gennaio 2033).

L’Epifania di questo neonato 2033 è arrivata portando in dono una grande novità, anzi due, allo stagnante panorama letterario italiano. Ad un anno dalla scomparsa del grande scrittore e filosofo Umberto Eco, morto nel giorno del suo centesimo compleanno, è stata istituita ufficialmente la Setta degli Echi Estinti, un’associazione di cultori del Canone Narrativo Echiano che ha lo scopo di serbare viva la memoria del Maestro attraverso convegni, studi sulla sua opera e, soprattutto, produzione di testi apocrifi sul modello sia dei romanzi del Canone sia del resto della sterminata produzione del Nostro. 
Ricordiamo che il Canone (e si noti la chiara allusione a quello holmesiano di ACD) è composto da sei grossi romanzi, scritti da Umberto Eco tra il 1980, anno della pubblicazione della Bibbia della SEE, Il nome della rosa, e il 2010, anno di pubblicazione della pietra tombale del ciclo romanzesco, quel Cimitero di Praga che fece dire all’autore, nel corso di una presentazione a Milano, essere quello il suo ultimo romanzo. Gli altri titoli, come noto, sono Il Pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000) e La misteriosa fiamma della regina Loana (2004). 
Fondatrice della SEE è Barbara Bara, docente di logica sillogistica e abduttiva alla Charles Sanders Peirce University di Bora Bora, la quale ha deciso di inaugurare la meritoria istituzione culturale con la pubblicazione del primo apocrifo echiano, il romanzo Numero Zero, uscito proprio ieri per i tipi della Bramantip. Ecco come lo illustra laletta di sovraccoperta: «Una redazione raccogliticcia che prepara un quotidiano [Domani] destinato, più che all’informazione, al ricatto, alla macchina del fango, a bassi servizi per il suo editore. Un redattore paranoico che, aggirandosi per una Milano allucinata (o allucinato per una Milano normale), ricostruisce la storia di cinquant’anni sullo sfondo di un piano sulfureo costruito intorno al cadavere putrefatto di uno pseudo Mussolini. E nell’ombra Gladio, la P2, l’assassinio di papa Luciani, il colpo di stato di Junio Valerio Borghese, la Cia, i terroristi rossi manovrati dagli uffici affari riservati, vent’anni di stragi e di depistaggi, un insieme di fatti inspiegabili che paiono inventati sino a che una trasmissione della BBC non prova che sono veri, o almeno che sono ormai confessati dai loro autori. E poi un cadavere che entra in scena all’improvviso nella più stretta e malfamata via di Milano. Un’esile storia d’amore tra due protagonisti perdenti per natura, un ghost writer fallito e una ragazza inquietante che per aiutare la famiglia ha abbandonato l’università e si è specializzata nel gossip su affettuose amicizie, ma ancora piange sul secondo movimento della Settima di Beethoven. Un perfetto manuale per il cattivo giornalismo che il lettore via via non sa se inventato o semplicemente ripreso dal vivo. Una storia che si svolge nel 1992 in cui si prefigurano tanti misteri e follie del ventennio successivo, proprio mentre i due protagonisti pensano che l’incubo sia finito. Una vicenda amara e grottesca che si svolge in Europa dalla fine della guerra ai giorni nostri». 
Il breve romanzo, costituito da diciotto capitoli, doveva intitolarsi Paralipomeni minimi del Pendolo, ma all’ultimo momento l’autrice ha optato per un titolo che metalinguisticamente alludesse alla sua funzione di testo fondativo dello spirito della SEE. Va osservato, altresì, che esso contiene chiari riferimenti autobiografici. L’anno in cui è ambientato, infatti, è non a caso lo stesso che ha visto i natali della Bara, e i cognomi dei tre accademici cui si fa cenno nel primo capitolo, Di Samis, Bocardo e Ferio, costituiscono un chiaro riferimento al nome e alla professione dell’autrice. Ma quello che l’estensore di questa breve nota vuole mettere in luce è soprattutto la tecnica con cui la Bara ha imbalsamato alcune reliquie del corpus echiano, perché essa costituirà probabilmente un modello per gli esperimenti successivi. Si noti infatti che il palinsesto del Pendolo (occorre insistere sul fatto che Colonna e Braggadocio sono chiari calchi minori di Casaubon e Belbo, per dirne solo una?), nel cui corpo testuale era già incarnato il nucleo concettuale dei saggi poi raccolti nel 1990 ne I limiti dell’interpretazione, è contaminato dalla Bara con la riesumazione di diversi lacerti de Il secondo diario minimo, uscito nel medesimo 1992 (è un caso?). Certo, i riferimenti ad altre opere del Canone (e non solo) sono innumerevoli, dal “dolenti declinare” del primo Diario minimo alla ripresa ironica da parte di Colonna del lessico erotico di Adso da Melk per descrivere i primi palpiti del suo amore per Maia, ma a fare la parte del leone sono almeno tre Bustine di Minerva incluse nel libro del 1992, che la Bara risuscita con un’operazione che rasenta il plagio, se non fosse che l’omaggio contiene sottili elementi ermeneutici di ricontestualizzazione critica. Vediamo queste riprese in ordine di apparizione.
1) Nel quinto capitolo, il finto direttore Simei invita il finto assistente alla direzione Colonna a tenere ai sei membri della redazione una lezione sulla tecnica subdola della “smentita della smentita”, che ogni buon giornale infame deve saper padroneggiare per difendersi dalle proprie vittime; ma nel far questo Colonna riprende alla lettera la Bustina del 1988 intitolata “Come smentire una smentita” (in Il secondo diario minimo, Bompiani 1992, pp. 116-117). 
2) Nel sesto capitolo, il redattore Lucidi, quello “immanicato coi servizi”, sostiene di avere materiale per un articolo “praticamente già scritto” sulla truffa degli ordini cavallereschi e parla di una lettera improbabile in cui a un suo conoscente viene proposto di diventare cavaliere di Malta dietro adeguato compenso; ma tutto l’episodio non è altro che la trascrizione pressoché letterale della Bustina del 1986 intitolata “Come diventare cavaliere di Malta” (in Il secondo diario minimo, cit., pp. 99-100), dove il destinatario della lettera era lo stesso Eco.
3) Nel nono capitolo, il redattore Costanza si propone per un pezzo di costume sul dilagare della moda dei telefonini, ma le argomentazioni che usano Simei e Colonna per cassare l’iniziativa sono tratte di peso dalla Bustina del 1990 intitolata “Come non usare il telefonino cellulare” (in Il secondo diario minimo, cit., pp. 141-142). Ma qui la Bara sembra avere un sussulto di vita propria, perché in questa ripresa c’è una sottile critica alla miopia mostrata da Eco in quell’occasione. È ben vero che la vecchia Bustina sul telefonino è uno dei pezzi minori più spassosi e sociologicamente arguti che Eco abbia mai scritto, ma è anche vero che essa tradisce una valutazione catastroficamente errata del fenomeno, come possiamo vedere oggi col senno di poi. Ben conscia di questo aspetto del testo che sta saccheggiando, la Bara gli dà un respiro nuovo mettendone in luce in modo spietatamente grottesco il messaggio implicito, perché fa dire esplicitamente a Simei e Colonna che il telefonino, come il personal computer, è un oggetto senza futuro, per cui è inutile occuparsene. E non solo: nell’occasione, con civetteria vagamente femminista, la Bara seppellisce l’ottusa protervia maschile mettendo in bocca all’unica donna della redazione (Maia) un’osservazione di costume di gran lunga più intelligente e profetica sulla moda dei telefonini.
Da un punto di vista più generale, pare lecito sostenere che il romanzo sia ben riuscito, soprattutto se si tiene conto del fatto che si tratta di un’opera prima (ben diverso discorso si farebbe se, poniamo per assurdo, il romanzo fosse un inedito postumo dello stesso Eco: in tal caso diremmo che si tratta di opera minore che l’autore non a torto preferì non pubblicare, considerandola magari una ripetizione poco attraente di cose già dette altrove). Anche se la macchina puramente narrativa non riesce a decollare e il romanzo, al postutto, rimane nell’alveo del puro conte philosophique, ricco di dialoghi volterrianamente arguti e calvinianamente leggeri, persino laddove questi indugiano su atmosfere gotiche e sepolcrali, e talvolta addirittura orride (si veda la lunga digressione sul cadavere del sosia di Mussolini nel dodicesimo capitolo, in cui è riportata quasi integralmente la relazione del medico legale che effettuò l’autopsia, peraltro reperibile su internet), l’autrice mostra una indubbia familiarità con lo stile, i topoi e le ossessioni concettuali tipici del Maestro e riesce a tal punto nell’azione di mìmesi che non di rado dà al lettore l’illusione di risentire l’eco inconfondibile della sua voce scritta. Si veda per esempio, nel terzo capitolo, il topos del settimanale come destino inevitabile del quotidiano determinato dall’avvento dell’informazione televisiva in tempo reale; oppure si pensi agli accenni esilaranti di liste vertiginose, nel terzo e nel tredicesimo capitolo, rispettivamente di modelli di automobili e di annunci matrimoniali; nonché alla fulminante battuta di Simei, basata su un gioco di parole consentito dal titolo del giornale fantasma, contenuta nel sedicesimo capitolo: “Domani muore: oggi stesso”. Qui davvero il cultore dell’opera echiana risente con nostalgia l’inimitabile humour e lo scaltro esprit de finesse dell’autore di My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni.  



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