Ci sono libri, e soprattutto romanzi, che a lettura ultimata lasciano dietro di sé un senso di vuoto, quasi di tristezza, perché capisci che ne sentirai la mancanza. L'armata dei sonnambuli di Wu Ming (Einaudi 2014) è uno di questi. Un romanzo di 792 pagine che all'inizio cerchi di scalare il più velocemente possibile (è estate e hai anche altro da fare) ma che verso la fine vorresti non finisse mai, perché ormai ti sei affezionato al suo mondo e ai suoi personaggi che hai frequentato per giorni e giorni. E così devi salutare a malincuore la sarta Marie Nozière e suo figlio Bastien, il "pagliaccio" vendicatore Léo-Scaramouche, frustrato attore italiano che insegue il fantasma di Goldoni, il suo "allenatore" Bernard la Rana, lo sbirro Treignac, il medico mesmerista Orphée d'Amblanc, allievo di Mesmer e Puységur, gli psichiatri Pinel e Pussin e i loro alienati di Bicêtre, le straordinarie eroine rivoluzionarie Claire Lacombe e Pauline Léon al seguito dell'"arrabbiato" Jean-Théophile Leclerc, amico del Prete Rosso Jacques Roux, la "puttana di Brissot" Théroigne de Méricourt, l'uomo-cinghiale Bernard Jaranton, l'ambiguo agente Chauvelin e la vedova Girard, i bambini mesmerizzati Jean, Noèle, Juliette e la figlia Margot, fino al delfino Luigi Carlo Capeto (Luigi XVII), ma anche i cattivi, gli ignobili Muschiatini (pa'ola mia!), il pazzo automa Malaprez (che ricorda il terrificante Ronald Niedermann di Millennium), l'uomo senza naso La Corneille, l'armata dei sonnambuli e infine il più malvagio di tutti, il loro Signore, l'ipnotizzatore controrivoluzionario complottista, il piccolo nobile di spada cavaliere d'Yvers. Tutte figure che si muovono a Parigi (e non solo) sul palcoscenico della grande storia, dal 21 gennaio 1793 al 21 gennaio 1795, dalla decapitazione di Luigi XVI al Termidoro, passando per Danton, Marat, il Terrore di Robespierre e Saint-Just, la fame, gli scontri per le strade e dentro la Convenzione, il "maximum" e la coazione a ripetere della ghigliottina.
Un romanzo storico "ideologico" (come da grande tradizione manzoniana) davvero epocale, rigoroso nell'uso delle fonti (la lunga sezione finale sul "come va a finire" è strepitosa) e curatissimo dal punto di vista dei registri linguistici.
Un'opera di cui dovremmo essere orgogliosi, sicuramente all'altezza dell'indimenticabile Q.
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