Qualche settimana fa, a una cara amica che mi chiedeva cosa stessi leggendo, per stuzzicare la sua curiosità di grande lettrice e sapendo che per ragioni legate al suo percorso di studi assai probabilmente l'opera non si trovava nel suo carniere, ho risposto: "Il libro più bello che esista".
Naturalmente si trattava di una risposta esageratissima, oltre che scorretta, soprattutto considerando che nessun libro può essere il più bello che esista, e meno che mai può esserlo un libro che il suo autore non ha mai scritto intenzionalmente. Com'è noto, ci sono voluti circa 50 anni (1947-1996) per dare una forma (forse) definitiva alle Lettere dal carcere di Gramsci e non sappiamo se il futuro ci riserverà altre sorprese con ulteriori ritrovamenti e quindi ulteriori edizioni. Eppure, ancora oggi il piacere intellettuale e il turbamento emotivo che questo libro induce nel lettore sono unici. Ma perché? Quali sono i segreti di questo libro? Tra i molti che si potrebbero elencare, e che hanno dato vita a una bibliografia sterminata, ne vorrei evidenziare soprattutto due.
1) Più si immerge nel testo più il lettore ha l'impressione che la prodigiosa forza stilistica e affabulatoria delle lettere stia nella condizione particolarissima della loro genesi. Viene in mente Calvino, soprattutto quello che faceva l'elogio dei vincoli e delle regole come elementi che scatenano la creatività letteraria, sfatando il mito romantico dell'ispirazione libera e fulminea: i veri artisti sono quelli che agiscono dall'interno di una gabbia di costrizioni normative (si pensi ai lipogrammi e a Perec), non quelli che si abbandonano all'espressione disordinata e traboccante. Il lettore che afferra questo aspetto dell'opera e vi rimane aggrappato verrà gratificato dallo stesso Gramsci a pagina 782 dell'edizione Sellerio, allorché questi, ormai quasi libero ma debilitato e ricoverato nella clinica romana Quisisana, scrive alla moglie il 24 novembre 1936: «Il piú delle volte sono pedante senza volerlo: mi sono fatto uno stile di circostanza, sotto la pressione degli avvenimenti, in questi dieci anni di molteplici censure». Ecco, è questo il punto: Gramsci scrive quando e quanto gli è consentito, cioè in un tempo e in uno spazio fissati (a volte arbitrariamente) dalle regole carcerarie, scrive quello che può scrivere (mai di attualità politica, solo di argomenti generali di cultura oppure di faccende personali e familiari) e sa che tutto quello che scrive è "pubblico" (a Giulia, 7.12.31), nel senso che è passato al setaccio dalla censura, sempre attenta alle comunicazioni in codice (Gramsci è considerato un detenuto pericolosissimo per la sicurezza dello Stato). Questa selva di vincoli, tuttavia, non fa che accendere la creatività di Gramsci, il quale riesce a realizzare dei capolavori di equilibrio narrativo, in cui l'esattezza e l'allusione si alternano trasformando ogni lettera in una macchina testuale in grado di dare vita a quella che in altro contesto egli chiama "fantasia concreta" («Ti voglio solo spiegare ciò che intendo, press'a poco, per fantasia concreta: l'attitudine a rivivere la vita degli altri, così come è realmente determinata, coi suoi bisogni, le sue esigenze, ecc.», a Giulia, 1936, ed. Sellerio p. 788).
2) Dal punto di vista più strettamente contenutistico, oltre alla tragica storia di un uomo sconfitto e stritolato dal potere che ricorda diverse altre storie analoghe (Socrate, Gesù, Boezio, Bruno, Vanini, ecc.), c'è qualcosa che non smette di ossessionare il lettore e che trasforma il libro in uno dei più intriganti romanzi epistolari che siano mai stati scritti, con personaggi tutti reali. È impossibile non chiedersi quale sia, dietro le reticenze e il linguaggio sorvegliatissimo, la vera dinamica del triangolo sentimentale Tania-Antonio-Giulia. Chi è questa cognata, sorella maggiore della moglie del detenuto, che gli sta accanto per dieci anni con una devozione estrema, mentre la moglie non riesce a fargli visita neanche una volta, nonostante le richieste talvolta insistenti del marito? Perché tutte quelle precisazioni di Gramsci sulle difficoltà emotive che incontra quando cerca di scrivere alla moglie (affetta da depressione e da altri disturbi psichici), mentre con Tania riesce a dialogare su tutto con una naturalezza sconcertante, anche nei non infrequenti momenti di tensione (ci sono lettere in cui Gramsci rimprovera la cognata, che spesso non segue alla lettera le sue istruzioni, con parole terribili)? Era tra loro che c'era il vero amore oppure, come insinuano certe ricostruzioni un po' romanzesche da "spy story", lei era una spia russa che, insieme a Sraffa (altra spia comunista, che agiva sotto copertura nell'ambiente universitario inglese) e per conto di Togliatti, doveva controllare da vicino il dirigente di partito italiano divenuto scomodo per le sue posizioni in merito ai conflitti politici in Russia nella fase iniziale di consolidamento del potere di Stalin? Da qui l'elemento romanzesco: si ha spesso il sospetto che nulla sia come appare e lo stesso Gramsci più volte si chiede (e lo dice chiaro alla cognata) se è tenuto in carcere dallo Stato o dagli "amici", familiari compresi.
Anche solo per i due aspetti sopra evidenziati, le lettere di Gramsci dal carcere costituiscono ancora oggi una lettura indimenticabile. Il resto, come ad esempio il loro carattere di introduzione imprescindibile ai Quaderni, viene da sé. (13.6.17)
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